Altre Pubblicazioni
Opere ritrovate di Giulio Fanari

Nino Cannella - Opere ritrovate di Giulio FanariEdizioni Trois 1996

Giulio Fanari nacque a Guspini l'8 Agosto 1877 e vi morì, appena sessantunenne l'11 Novembre 1938. Suo padre Ignazio Fanari era stato sindaco di Guspini; sua madre, Paola Contini, era originaria di Sardara. Suo fratello Silvio, medaglia di bronzo al valor militare, cadrà col grado di tenente, nel 1917, sul fronte della grande guerra. Sposò, nel 1905, Antonia Lampis Corona, di antica e ricca famiglia, ed ebbe sette figli: Hiram, Alba, Myriam, Sollmann, Vindice, Silvio, Urania.
Condusse studi liceali e scrisse per tutta la vita, lasciando migliaia di pagine di poesia, disperse incidentalmente pochi giorni dopo la sua morte. Noto ai poeti della Sardegna d'allora, con i quali ebbe intense relazioni epistolari, riappare oggi, nei suoi primi manoscritti ritrovati (1913 - 1917).
Sebastiano Moretti nel suo poema « Su valore de sos Sardos in gherra » lo cita tra i grandi poeti classici della letteratura Sarda.

Nino Cannella


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Tratta da: "Opere Ritrovate di Giulio Fanari"
una ballata campidanese dal titolo: "Sa Sorti"


SA SORTI


Ballata ironica e trasfigurata sulla forza del destino.., le sue bizze e la sua fatale parzialità.
Come in ogni saggezza popolare che la vuole crudele e ingiusta padrona della vita, la Sorte - malferma e inaffidabile dispensatrice di sé - fa penare anche il poeta, che la contempla e la definisce.
Propizia e contraria.., vicina ma vana.., lontana e neces-saria.., celata e presente.., invocata ed assente.., insomma: " Sa Sorti fait su chi bolit issa " .
O Sorte..! Che accresci e riduci.., che offri e trattieni.., che prodighi e neghi.., che riempi e che svuoti.., che crei e distruggi le ore dell' uomo! O perfida e infìda! Per mari e per monti.., per fiumi e per ponti…

Sorti ch'in su mundu non tenis firmesa
cumenti de tui mi pozzu fidai?
I
Sorti variabili, dogna consòlu
mi donas, mi pigas, cambias che bentu;
tott'in d'un istanti mi ponis in dolu
candu mi promittis de bivi cuntentu ...
Sorti ses turmentu, Sorti ses ingannu,
Sorti ses affannu, ses risu, ses prantu.
Cantu balis cantu chin' had'apprezzai.

II
Sorti ingannadora non tenis valoris
ca trattas cun modus crudelis, ingiustus.
A s'unu cunzedis is mellus favoris,
a s'ateru negas prexeris e gustus;
bincis is robustus fillus de sa terra;
sa paxi, sa gherra, Sorti, dd'ammesturas,
su mali non curas, nè su beni mai.

III
Prima nos offèris ricchesas terrenas,
pustis cun sa forza de centu leonis
improvvisamenti truncas is cadenas
e s'omini in dannu terribili ponis.
Non chi mi perdònis, nè chi mi prefèras,
ma cument' opèras, peus de sa morti,
meritas, o Sorti, de ti disprezzai.

IV
Custas is virtudis, o Sorti, chi tenis!
A chi nudda vantat tottu ddi prodìgas!
A chini possidit centu mila benis
dogna sustanza, Barbara, ddi pigas!
Su scapu ddu ligas, su bonu dd'attontas,
su riccu dd'affrontas, curris a sa nua ...
de s'idea tua non rizedis mai.

V
Sorti ti dilettas cun perfidas trassas :
s'omini ritenit chi tocchit sa luna ...
tui dispettosa ddu prostras, ddu cassas;
vittima ddu rendis de sa disfortuna.
Sorti ses cumuna pro tott'is mortalis;
is benis, is malis dispensas e negas,
frastimas e pregas, boccis po gosai ...

VI
Sorti ses tiranna, crudeli, maligna,
Sorti ses propizia, Sorti ses contraria;
candu prus ti vantas de m'essi benigna
prusu m'appetigas, prus ti mustras varia..;
si ses necessaria ti tenis lontana,
si mi torras vana, Sorti mi nd'accostas,
ti cuas, t'impostas po mi maltrattai...

VII
Sorti cantu faccis portas no ddu scìu;
ita non ti fingis amica sincera;
permittis su giogu, sa festa, su briu... ,
a tottus carigAnas cun bona manera,
paris dispensèra de dogna delizia,
paris s'amicizia personificada,
ses'inveci spada pront' a assassinai .

VIII
A s'umanidadi ddi cunzedis parti,
Sorti varianti, de malis e benis;
de s'ingannu sighis, o Perfida, s'arti,
crescis e diminuis, offeris, ritenis,
sbuidas e prenis, ti siccas nascendi ...
Sorti, chi cumprendi podit cust'arcanu?
Sorti, torrat vanu su tantu invocai!

IX
Sorti ses velenu, terribili lanza
chi ferit su coru de su disdiciau ...
e puru cuntenta lassas s'isperanza
de mi biri un'orta beni accarezzau ...
Sorti chi passau has maris e montis,
arrìus e pontis, immensas pranuras,
non donis tristuras senza meritai!

X
Sorti cantu nottis ti clamu prangendi
e tui non m'ascurtas, Sorti incrudelida!...
O Sorti, su coru ti stat disigiendi,
beni, non ti mustris cun megus fingìda.
Sorti, de sa vida mia ses sa meri..,
nara: de prexeri perunu mi dignas,
oburu malignas, Sorti, 'e t'ingannai?

Sorti ch' in su mundu non tenis firmèsa
cumenti de tui mi pozzu fidai?

 

Scritti sull'Arte

Nino Cannella - Scritti sull'ArteEdizioni Trois 1999

Lezioni e conferenze su:
- Di Durer e di Grunewald
- Caravaggio
- Due cose su Vermeer
- Una letture delle Majas di Goja
- Vincent Van Gogh
- Picasso
- Amedeo Modigliani
- Saluti da Matisse
- Nivola, Sassu, Sironi
- Markus Lupertz
- Giacomo Casanova
- Nietzsche e l'Italia
- Marcel Proust
- Ballate Campidanesi di Giulio Fanari
- Rodolfo Valentino

Questi Scritti sull'Arte costituiscono una parte delle lezioni tenute nei tre anni accademici in cui sono stato incaricato di produrre i corsi di Storia dell'Arte e di Cultura Italiana all'Università della Terza Età, nella sua sede autonoma di Guspini. Avrebbero quindi dovuto portare il titolo, più confacente, di: Lezioni e Conferenze - perché in tal senso sono state proposte e scritte - e far parte delle pubblicazioni previste per l'attività culturale dell'istituto che porta quel nome. Ma la loro estensione - che richiedeva un controllo ed un contorno più strettamente letterari - ha permesso di giustificare il loro titolo attuale, largheggiando sull'arte dei pittori e sull'opera (e la vicenda umana) degli altri autori trattati. Prestigio e operatività per un nascente tentativo di lubrificazione e personalizzazione della U 3 E. non mancarono, né sono venute meno. Scripta manent.., anche se l'offerta del testo non contempla le integrazioni dialogiche venute su da complementi suggeriti dal testo stesso lungo la lezione orale. Verba volant.., ma non ho voluto rincorrerle. Pubblicarli come sinossi di studio e verifica delle attività è stato un atto dovuto.., un confronto attivo con la situazione. Sono saggi scritti da un pittore, e in questo senso hanno la loro peculiarità, dato che sono quasi sempre i critici a scrivere d'arte. E non scrivono in diretta. E non sempre sanno farlo senza lirismi canterini e asettiche valutazioni ... " criticistiche ". Tra il vederla e il farla, la Pittura sceglie amanti diretti.., e sorride di più, se l'accarezzano dal vivo... E' un'amante fedele, e per quanto ciò sembri impossibile, non strizza l'occhio a tutti.

Nino Cannella

    Giacomo Casanova

Lezione inaugurale del corso di
CULTURA ITALIANA
UNI 3 - Anno Accademico 1998/99

GIACOMO CASANOVA

L’opportunità di scrivere qualcosa sul Cavaliere di Seingalt, come proposta per inaugurare questo corso di Cultura Italiana, mi stimola e mi onora. Conosco l’opera di Casanova da vent’anni, e da allora essa occupa un posto d’onore nella mia biblioteca. La considero una cattedrale nelle grandi città del romanzo, e non a caso la tengo a fianco alla Recherche di Proust.
Memorialisti diversi, per memoria e scrittura. La prosa straordinaria di Marcel è scolpita nel sogno, e l’aria purissima della sua notte investe albe oceaniche e preludi completi del giorno da vivere. Le stanze immense del “ricordo” sono labirintiche e ricche di vetrate; veli intrisi di memoria coprono memorie intrise di veli; l’intermittenza del fittizio si fa eterna e maestra del tempo. Casanova è un’altra cosa: le sue vetrate sul vero sono altre; altro il racconto, altro il colore delle circostanze vissute e ricordate con robusto compiacimento e svelta penna. Purtroppo, per moltissimi anni è rimasto in qualche modo quasi inaccessibile. Egli ha fatto alta letteratura documentando la propria identità, la sua storia e quella del suo tempo, ma certamente è stato più chiacchierato che letto. Entrambi, a modo loro, giocano da professionisti della vita, e li accomuno per l’amore e l’unicità dell’impresa.
La vita è conoscenza, e l’officina del racconto e quella dell’azione sono altrettante forme quotidiane dell’una e dell’altra: la conoscenza e la vita. Il romanzo del secolo passa per i ponti di Marcel Proust, ma il romanzo del Settecento passa per quelli di Casanova, confessioni di un altro italiano. Non ho più riletto le quasi cinquemila pagine della sua vita, ma ho avuto spesso e volentieri occasione per produrre quel piacevole argomento di conversazione, che lasciava sorprese le persone che ascoltavano incuriosite la mia scoperta privata di questo importantissimo (e allora mal conosciuto) scrittore italiano. Il 4 Giugno di quest’anno è corso il Bicentenario della morte dell’autore dei Memoires, ed ho (soltanto adesso) notizia che Venezia si prepara al ricordo trionfale del suo grande figlio con una mostra alla Ca’ Rezzonico. E gli onori saranno quelli che si devono ad uno dei più grandi veneziani di tutti i tempi.
Forse vi stupirete di questa definizione introduttiva e volutamente provocatoria – Giacomo Casanova essendo, per la maggior parte di voi, una figura del sentito dire, un avventuriero, un seduttore, un libertino geniale, un senza patria, e quant’altro - ma non sono molti a sapere che la sua Histoire de ma vie è uno dei capolavori assoluti di tutte le letterature: una struggente memoria privata del suo secolo, il Settecento, che lo ha visto protagonista sfarzoso e di vasto ed altissimo sguardo.
Per quanto non sia del tutto impropria l’idea che del Casanova hanno le vittime anonime dell’immaginario collettivo, il gentiluomo pericoloso e l’uomo di mondo che egli fu, il giocatore incallito, il predicatore mancato, il suonatore di violino a tempo perso, il traduttore dì Omero, il risolutore del Problema Deliaco, l’amante di duecento donne (comprese suore, sguattere e principesse), il cabalista che seppe trascinarsi dietro per molti anni una vecchia marchesa parigina (e i suoi soldi, per una reincarnazione a pagamento) è un illustre scrittore. Il viaggiatore instancabile, il brillante conversatore dei salotti parigini, l’uomo che anche Voltaire ascoltava compiaciuto, l’autore della Storia delle turbolenze della Polonia, dell’Icosameron.., così tipicamente espresso dal suo secolo, tipicamente lo ha espresso, dandogli – attraverso il suo memorialismo – un’espressione artistica e storica completa e coraggiosa.
Se egli ha vissuto tutto quel che ha scritto, anche se non ha scritto tutto quel che ha vissuto, il suo coinvolgimento nel quotidiano del suo tempo ha concluso un gioco di confronti che pochi osano sperare. Lo spettatore divertito e totale del ricordo della sua vita straordinaria, che gli detterà altrettanto divertite e struggenti memorie, mette alla prova tanta storia della letteratura del Settecento Italiano. La letteratura del “vissuto” forse comincia con lui. Goldoni e Metastasio sono figure (oggi reputate) parziali del loro tempo. Lui conosceva più direttamente gli uomini e l’Europa, per permettersi di poter produrre quella scrittura che – a parte la verità storica e la veracità dell’autore - fa correre il tempo e i fatti della vita sulla carta caleidoscopica del vero. Forse aggiungerà qualche dettaglio postumo, forse mischierà più viaggi.., forse donne diverse avevano in realtà lo stesso volto.., forse aggiungerà qualche notizia di seconda mano, qualche romanzesca ispirazione, ma la sua avventura umana è di squillante modernità.
Aveva alta cultura e molti stimoli. La sua vita era il suo campo di gioco. E giocò molto bene.., talvolta sulla propria pelle. Il Viceré di Polonia: il conte Branikhi (sfidato a duello per uno sgarro verbale) si beccò una pallottola da lui. Un’esperienza non comune guidava il suo coraggio; una vitalità originale cui non è mai mancato il gusto delle cose, e il vasto orizzonte dei suoi desideri, lo hanno guidato verso una visione completa del suo tempo, e noi sappiamo bene che le grandi letterature sono sempre quelle del vissuto. Anche racconti fantastici o tragedie in versi sono comprovate dall’esperienza privata (e trasfigurata) dell’autore.., anche romanzi di vita inventata… (Dostoevskij, Kafka, Celine…)
Vantò amicizie o relazioni con la Pompadour, Luigi XV, Caterina di Russia, Voltaire, Federico II, Rousseau, Mengs, il Canaletto, Cagliostro e Saint Germain, Crebillon, abati, nobili, scrittori, attori e popolani d’ogni risma. Adattò dalla cabbala una Lotteria che permise alle casse della monarchia francese di costruire un importante monumento a Parigi; corse il mondo come nessun altro (Francia, Inghilterra, Spagna, Vienna, Praga, Russia, Germania, Grecia, Olanda, Svizzera, Boemia, Portogallo, Costantinopoli, Varsavia, Liegi, Italia in lungo e in largo); visse di folli spese e di fortune insperate: intrighi, gioco d’azzardo, camicerie, traffico di diamanti, panacèe, scintillanti carrozze e hotels di 1^, amici gentiluomini e furfanti, donne a volontà… Parlò di tutto, riverito o temuto; fu massone (ma è la sola cosa di cui non parli nell’Histoire de ma vie, ed è abbastanza strano che un uomo come lui, che si propose ed attuò una confessione della propria vita come poche ce ne sono state, se la sbrighi affermando che il pensiero massonico non sia comunicabile). Così, almeno, scrive.
L’Histoire de ma vie è stata per un paio di secoli un capolavoro sconosciuto. L’aristocratico teorico del corpo e dello spirito gaudente, dei purgatori perduti e guadagnati… (il piacere non essendo mai stato per lui qualcosa di riprovevole o di trascurabile) era uno scrittore piuttosto eccessivo per i gusti dei lettori del nascente Ottocento. Ci fu anche chi accusò quel libro di menzogne romanzesche, soprattutto per la presunta immoralità del personaggio e dell’autore. Peggio che mai, l’Histoire, scritta in francese e quindi non rientrante a tutto titolo né nell’una letteratura, né nell’altra, tradotta in tedesco in pagine abbreviate, ritradotta in francese (e rivisitata da Jean Laforgue) non poteva avere altro destino che il suo lungo e urlante silenzio.
Ma se Casanova fu il solo testimone della sua storia scritta, il suo racconto resta coerente, lucido e voglioso di arrivare al dunque e permanervi quanto basta ad ogni onorevole letteratura. Questo filosofo di mondo, dal vivere annunciato e vissuto, sa valere Balzac, Sthendal, Tolstoj, e molti altri… Senza intendere per romanzo quel che intendono gli sprovveduti e i perditempo della carta stampata, ma un modo per rispondere alla vita percorrendo l’avventura letteraria sulle proprie risorse reali e la realtà su pagine sudate sul vero e sul possibile, Casanova è un principe della letteratura. Ma… consentitemi di parlarvi della mia scoperta privata di Casanova, e raccontarla…
Non ricordo esattamente quando, ma poteva essere il ’75, forse il ’76; anni senz’altro non sospetti per ricerche letterarie private. Non è il mio mestiere. Chi possiede quegli anni solitamente pensa a leggere altre cose, ma chi scrive non è meno giovane di loro, né vuole essere più vecchio, né lo era allora. Diciamo venti, ventidue anni fa…
Sfogliavo un noto settimanale: L’Espresso. La sua rubrica letteraria interna riportava un curioso studio comparato sulle grandi letterature d’ogni tempo e d’ogni paese. Proveniva da alcuni istituti universitari europei e proponeva i Cento Massimi Autori della Letteratura Universale. Una rosa così ristretta avrebbe stimolato ogni curiosità, anche se non c’era nulla di nuovo, tranne forse una cosa. Cento scrittori italiani del Novecento sono una scelta; oziosa, ma una scelta. Cento cantanti e cento calciatori si può sceglierli su qualsiasi scala, ma i cento scrittori universali della storia umana erano una proposta e una barriera che non poteva essere provocatoria, né dubbiosa. Il meglio della letteratura mondiale in cento nomi è una selezione obiettiva che non può essere incerta.
In Summa: c’era Omero, c’era Platone, Sofocle e gli altri tragici greci.., c’era Virgilio, Cicerone, Seneca, Sant’Agostino.., c’erano Shakespeare, Goethe, Cervantes, Nietzsche, Proust, Hugo, Lutero.., c’erano (giustamente) i testi sacri: Bibbia, Corano, Veda.., c’erano i Russi: Tolstoj, Dostoevskij, c’erano Dante, Ariosto, Machiavelli, Manzoni, Leopardi, c’era Mann, Kafka, Musil, c’erano Kant e Schopenhauer.., Moliere, Balzac, Boccaccio.., Joyce, Baudelaire, Poe, altri filosofi importanti.., poeti come Qayyam; in Summa: chiunque abbia dimestichezza coi libri non avrebbe avuto nulla da obiettare; ma non prevedevo che tra tanti nomi avrei trovato sotto il mio sguardo anche quello di Casanova. Parbleu! Cosa ci fa costui tra tanto senno?
Se i nomi sono piatti di portata, Omero, Dante, Proust, Shakespeare, Platone e Casanova sembravano un manuale di Nouvelle cuisine..: caviale con pistacchi.., ostriche col caffè! Possibile che in quella stanza brillassero novantanove lampadari e una candela? Chi è Casanova.? Un cavolo a merenda.?
In effetti, sapevo di lui quello che sanno tutti, cioè sostanzialmente niente; ma qualcosa mi diceva di approfondire. Nessun libraio consultato trovò qualcosa da consigliarmi, tranne una “Fuga dai Piombi”, pubblicata (mi pare) a Spoleto; di piacevolissima lettura, ma non d’altro per unire Casanova a quell’armata di generali a quattro stelle. Molti anni prima, in una libreria Remainders, avevo scorto un poderoso cofanetto di volumi rilegati, con una silhouette nera dal profilo aquilino e titoli dorati: Casanova: “Storia della mia vita”, ma presi solo nota di quei venti centimetri di pagine stampate. Ora, l’interesse per Casanova mi seguiva.
Più o meno nello stesso tempo (1976..?) Fellini dirigeva il suo capolavoro: CASANOVA, ironico e sguaiato ma bellissimo. La sensibilità visionaria di Effe-Effe strizzava il personaggio, ma il regista lo aveva certamente amato e letto bene, per misurarsi con lui in quel film favoloso. Trovai anche una biografia, che acquistai, lessi e regalai. Non era esattamente quel che cercavo, ma il biografo di Casanova (R.Gervaso) riportava notizie importanti, che confermavano l’appartenenza dell’autore dell’Histoire de ma vie a quell’elenco. Non possiedo più quel testo, quindi cito a memoria: “Trascorrerà gli ultimi anni della sua vita preda dei suoi struggenti ricordi, che gli detteranno uno dei più bei libri di tutti i tempi.”
Scritta da un biografo è frase rilevante. Non si danno definizioni così ardue di un bel libro se non c’è del vero. I tempi non saranno tutti, ma sono tetti del giudizio; e i più bei libri di tutti i tempi non sono moltissimi. Lo stesso libro mi informava di manoscritti Brockhaus in traduzione tedesca ed abbreviata, di trafugamenti, di edizioni critiche recenti, ed a quel punto l’Histoire era qualcosa che doveva stare in casa mia.
Nel 1982, a Parigi, tra i bouquinistes dei LungoSenna scoprii un’edizione ottocentesca dei Memoires. Non l’acquistai. Non era l’Opera che cercavo, e quei dodici volumi erano carissimi per accordarmi sul prezzo. Però quel gentile bouquiniste (che conosceva i testi di Casanova) riconoscendo il mio interesse, m’informò che da Gallimard (in Boulevard Raspail) avrei trovato un’ottima edizione recente in tre volumi. In effetti, la Biblioteque de la Pleiade aveva in catalogo Casanova in edizione integrale: quella curata da Laforgue. Non era l’edizione critica dei manoscritti Brockhaus (ricomparsi nei primi anni Sessanta, e dei quali parlava Gervaso) ma dovevo conoscere il centesimo nome di quei generali. Inutile dire che acquistai i volumi, e che trascorsi estate e autunno dell’82 con l’Histoire de ma vie sotto gli occhi. Quattromilacinquecento pagine in francese, scritte da un talento prodigioso e creativo che m’incantò non meno delle altre penne citate in quelle pagine dell’Espresso. Casanova entrava in quella rosa di diritto. Avevo letto uno dei più bei libri di tutti i tempi; un capolavoro assoluto. L’uomo circoscritto e temporale delle mitologie popolari era uno scrittore universale ed eterno. Nel 1983, qualche giorno dopo il mio rientro da un altro soggiorno parigino, lessi una pagina del Corriere della Sera interamente dedicata a Casanova. La Mondadori, nella sua collana più prestigiosa: I Meridiani, accoglieva la traduzione di Pietro Chiara della Storia della Mia Vita. Il Cavaliere di Seingalt entrava nel castello dei grandi libri.
Se quell’opera avesse avuto un diverso destino e una scrittura in lingua italiana, il romanzo italiano moderno non avrebbe avuto bisogno di aspettare un secolo per concedersi cose migliori. E tralasciando l’ammirazione incondizionata, il valore letterario e storico nel racconto della propria vita (nella sua più colossale vastità di memoria e d’azione) è di pochissimi. Ed è di Casanova. Che cercasse l’effimero nella mondanità, che si portasse a letto un centinaio di fanciulle consenzienti ed altrettante gentildonne, che conoscesse i riti e i miti della corruzione popolaresca e gentilizia, che curasse la sua persona e la vestisse come un dandy, che risolvesse a carte o col plagio di vegliarde parigine il suo bisogno di zecchini e di libero pensiero in gaudio quotidiano, che avesse avuto a che fare con Cagliostro (anche se nell’Histoire lo cita appena, riservandosi di approfondire più in là), che invecchiasse male con la servitù del Conte Waldstein che gli derideva il prestigio personale, egli ha visto e vinto il tempo con la memoria del vissuto.
Studiò Diritto Pubblico e Canonico, ma la sua vita seppe canonizzare a sufficienza il suo diritto privato. Dai suoi successi straordinari e stagionali… a conventi e galere; da gioiose lussurie.., ai Piombi e alla critica teatrale; da un volume di traduzioni dell’Iliade alla storia ed alla critica della politica.., dal ricevimento nelle corti di sovrani illuminati all'audacia di pagine violente contro potenti veneziani; dai romanzi di fantascienza che gli facevano gustare la speranza dell’alloro letterario (che verrà altrimenti), agli ultimi anni che lo vedono stanco e vinto nell’apparenza fisica. Scriveva l’Histoire per tredici ore al giorno (e scrivere di sé e del mondo non è mestiere di sconfitti) e marciava verso una superiorità numerica di fatti che non ha confronti. Uno scrittore fuori norma come lui, che scrive quando non può più vivere dal vero la sua fortuna, si fermerà soltanto con l’unico rivale. Come fu per Proust. La morte.
Nessuna di quelle ricerche del tempo perduto è terminata. Dopo più di quattromila pagine Proust chiede più tempo pour accomplir son oeuvre..: per “altri giganti immersi negli anni”. Giacomo Casanova non ha fatto in tempo a raggiungere il 1774 e il suo ritorno a Venezia, a cinquant’anni, dopo diciotto trascorsi in viaggi e destini. Il dopo non ci è noto (e non sappiamo se perché non scritto o non mai riscoperto, o se distrutto o trafugato dai suoi nemici di palazzo, a Dux, dove si tribolava tra fastidiosi maggiordomi). Circonferenze non complete, dunque; ma che se anche non consentono allo sguardo di posarsi sulla meta, sono concluse per il loro fascino di lunghi compagni. Il principe di Ligne, zio del conte di Waldstein, era il primo goloso lettore dell’Histoire, che conosceva anche a parole, consumate nei lunghi giorni in cui il grande avventuriero (ormai sedentario e a corto di soldi, d’avventure e d’amanti) lo rallegrava col suo vivo spirito e la sua sterminata cultura. Ho qui un suo ritratto epistolare del Casanova degli ultimi anni: stanco e rissoso con la servitù del conte, che lo infastidiva continuamente e scioccamente; stizzito di non essere salutato per primo, o che gli spaghetti non fossero cotti a dovere, deriso per la sua eleganza, per la sua pronuncia del tedesco (anche se parlava cinque lingue).., per dubbi sulla genuinità della minestra.., per la stanchezza dei suoi settant’anni.., per la sua sensibilità e forse anche per qualche sua fisima. L’autonominatosi cavaliere di Seingalt chinava il capo a quelle tante sfrecciatine di nani, ricordando che quand’era più giovane aveva aperto il ventre del Vicerè di Polonia per una parola sbagliata, ed era riuscito ad evadere dal più terribile carcere del tempo: I Piombi.
Aveva anche discusso alla pari con grandi filosofi d’allora, ma Venezia lo aveva abbandonato ad un mestiere che non poteva dargli altro che guai. Il seduttore ormai in declino.., un piccolo posto al sole sempre più difficile in una città che, ormai, viveva solo dello specchio di sé stessa, una vita forse già fatta (e molti nemici), un lavoro al servizio degli inquisitori della Serenissima…gli faranno scrivere (non nell’Histoire): “…poiché questo clima fatale alla mia salute, il languore, l’intera afflizione e miseria, tutto concorrerà a farmi terminare l’infelice mia carriera, morendo fuori ed in disgrazia della patria. La filosofia non mi fornisce forze bastanti per rimirare una tal morte con occhio stoico. Una sana morale vuole che prima di pensare ad ottenere il perdono de’ miei falli da Dio, l’ottenga dal giusto e clemente mio principe. Se ciò non mi riesce, prevedo difficile la salute dell’anima mia, poiché mi sento lo spirito attaccato all’onore del mondo.”
E torniamo a quello. Giacomo Casanova nacque a Venezia il 2 Aprile 1725 e morirà il 4 Giugno del 1798, a Dux, in Boemia, pronunciando le parole riportate dal Principe di Ligne: “Ho vissuto da filosofo e muoio da cristiano.” L’Histoire de ma vie è stata scritta nei suoi ultimi anni, con febbrile passione, e senza che l’autore si sentisse un poeta o uno storico della vita quotidiana. Ma chiunque sia filosofo a suo modo (e senza chiacchiere) può essere un poeta della propria vita, se ne possiede il testo. Le sorgenti di un libro sono sempre nella vita, mai nella ricetta. Il rischio continuo e un uomo coltivato, la fortuna raccolta sul sapersi vivere, un’intelligenza fluida e pari a tanta libertà da vendere, tutto questo può divenire libro.
Come è per un pittore, non c’è bisogno di alcuna predisposizione del tema; si può dipingere una sedia o il marciapiede di un caffè di notte, giocatori di carte, arlecchini e fucilati del 3 Maggio così come l’altare di Isenheim a Colmar, o gli invasi dalla luce di Dio caduti da cavallo… come Il San Paolo del Caravaggio. Sarà il pittore a sapere quello che deve fare: Meninas o Giganti. I trionfi sono nei risultati.
Il terreno dei discorsi sul vero e di quelli sul possibile è relativo. Che la trave che vibrò sotto la grata della sua cella ai Piombi fosse un’avvisaglia del terremoto che distrusse Lisbona, o che l’invocazione a qualche santo protettore (che lo facesse evadere) lo riducesse a non trovarne uno, e che fosse l’Ariosto a suggerirgli un’ipotesi di fuga tra il fin d’Ottobre e il capo di Novembre, in corrispondenza della Festa di Ognissanti, in cui ci sono santi per tutti quelli che a loro si invocano, che l’Histoire sia scartata di un anno in molte parti.., che mischi qualche avventura d’andata durante una trasferta di ritorno, che certe vergini fossero improbabili.., che gli alberghi e gli incontri non fossero sempre di primissima scelta, e le vincite favolose al gioco fossero puntuali e sicure come la sua eterna sicurezza, ciò non dimostra impossibili contratti con la vita. L’Histoire come “nobile soggetto di risa per buone compagnie” non è un transatlantico per disoccupati lettori, ma un treno narrativo per geografia di città, foreste, valli e grotte umane. L’esiliato felice del suo successo personale sa che il suo manoscritto (e quindi la sua storia) è una delle forme della verità possibile. La capacità di stendere un racconto totale è il solo modo per dimostrare la sua verità. Chi tenta di scrivere di sé (senza poterlo fare) va facilmente fuori strada dopo la quinta frase, ed alla quinta pagina (tra improbabile vissuto e spocchiosi scritti relativi) corrono abissi e nuvole che frenano gli assalti al cielo.
Il protagonista, deuteragonista, coro dell’Histoire, deus ex machina, è Lui. Si amava, ed è la prima cosa che si avverte. Il più romanzesco di tutti i romanzi (che è la vita stessa..: dice Proust) sa tollerare gli arrangiamenti. Il racconto è sempre, alla fin fine, il solo risultato delle polveri umane; un esempio modulare di destini privati, avventatezze, caso, chiacchiere, letteratura e solai pieni del senno di poi. Ma un racconto non può essere così imponente, diretto e persuasivo, se la sua tensione narrativa, continua come un’epopea e lunga mezzo secolo, non ha materiali e verità a disposizione. Quello che è divenuto oggi un grandioso ritratto dell’Europa dell’ultimo secolo antico (o del primo secolo moderno): il Settecento, è un misto di letteratura, dialoghi, teatro, autobiografia, storia, psicologia, costume, arte, vita politica, filosofie private e gaudium magnum. Se la letteratura è anche speranza che l’amaro miele del destino non mischi invano le circostanze e la fortuna, ma le domini - almeno sulla carta - Giacomo Casanova colma un vuoto che giustamente quella pagina dell’Espresso aveva riempito col suo nome. Per questo Casanova ha un suo posto d’onore nella mia biblioteca.
Ed ora, per completezza di informazione, sarà bene ricordare biografia e bibliografia Casanoviane.
La sua vita è densa di avvenimenti fino all’incredibile! Figlio di un’attrice di teatro (Zanetta Farussi) e forse di Gaetano Casanova, si iscrive e laurea in legge a Padova, nel 1742, poi se ne va in giro di piaceri per l'Italia: Ancona, Napoli, Roma. Fa le sue buone conoscenze ed entra in servizio come segretario del Cardinale Acquaviva, ma abbandona quasi subito la carriera ecclesiastica e ritorna a Venezia per arruolarsi nell’esercito della Repubblica. Sparisce per un po’ a Corfù e Costantinopoli, dove non mancano fortuna e donne. Rientra a Venezia; fa il violinista in un teatro della città, e pratica d’avvocatura, ma è costretto ad allontanarsene. E’ a Verona, Milano, Parma, poi raggiunge Lione (dove prende contatti con la massoneria) e Parigi, per due anni.
Donne e champagne a fiumi… Si sposta a Dresda, scrive opere teatrali, poi va a Vienna, dove incontra Metastasio. Torna a Venezia, e se la spassa ancora per un paio d’anni, ma una notte è arrestato e imprigionato ai Piombi senza alcun processo. Ha appena trent’anni. Evaderà quindici mesi dopo, la notte tra il 31 Ottobre e il primo Novembre del 1756, raggiungendo Monaco, e, da lì, nuovamente Parigi, dove avrà occasione di frequentare la ricca nobiltà. Donne e champagne ancora a fiumi. Vende reincarnazioni a rate alla Marchesa D’Urfè.., e fa il direttore di una lotteria reale di sua invenzione. Viaggia per mezza Europa, fino al 1760 (incarichi vagamente diplomatici in Olanda, qualche altro arresto, poi ritorna in Italia: Genova, Firenze, Roma, Napoli, Bologna, Modena, Torino). Poi lo troviamo in Svizzera, dove incontra Voltaire. Poi nuovamente a Parigi, che deve abbandonare per fatti di spada. Torna in Germania e va in Inghilterra l’anno successivo (1763), ma è obbligato a fuggire anche da lì. Rientra a Berlino, dove ha modo di conoscere Federico II. Pare sia stato ricevuto a San Pietroburgo anche da Caterina di Russia. Poi prende l’aereo per Mosca e il treno per Varsavia, dove, nel 1766, è ricevuto con tutti gli onori. Ha persino il tempo per sfidare a duello il Grande Generale Di Polonia, il conte Branikhi, e per poco non lo ammazza. Ha quarantun’anni e può prendere altri aerei d’andata (e biglietti d’espulsione di ritorno) per Vienna, missili per la Germania e navi per Parigi… Seguono poi le mongolfiere per la Spagna (e anche gli arresti), gli elicotteri per la Svizzera (dove pubblica una Confutazione - scritta nel carcere di Barcellona) e le carrozze per l’Italia (sempre da una parte all’altra). Donne a bizzeffe.., ma non è il caso di stendere elenchi telefonici. Finalmente può ritornare a Venezia; ha quasi cinquant’anni. Quella favolosa passeggiata di diciotto anni è il fulcro della Storia della mia vita, le cui pagine – purtroppo - si fermano lì. A Venezia scrive e pubblica la Storia delle turbolenze della Polonia (perché aveva anche tempo per scrivere di politica, e perché qualche turbolenza ai polacchi l’aveva creata anche lui con quel famoso duello) e la traduzione di alcuni canti dell’Iliade. Poi verranno gli Opuscoli Miscellanei, gli Aneddoti Viniziani, le stalle ripulite, i giornali e le compagnie teatrali, e – nuovamente - un altro biglietto aereo. Di sola andata.., stavolta. Altra Italia, altra Vienna, altre Parigi, altre Berlino. Poi, lo scalo di Dux, dove aveva accettato l’incarico di bibliotecario nel castello del Conte di Waldstein. E’ il 1785. Casanova è ormai solo, con i suoi immensi ricordi. Scriverà qualche proficuo lavoro letterario: la storia della sua Fuga dai Piombi, che aveva sempre raccontato (deliziando i salotti di tre quarti d’Europa), i Soliloqui di un Pensatore (su Cagliostro e Saint Germain, che conosceva molto bene), l’enorme Icosameron: ottantun anni vissuti con i Megamicri nel nucleo della terra, e una risoluzione del problema della duplicazione del cubo (perché aveva tempo anche per pubblicazioni scientifiche). Ne aveva sempre avuto, come tutte le persone veramente ricche; anche se ormai era povero e vessato dall’ambiente dei castellani di Dux; piccola gente che poco sapeva del vecchio Cavaliere di Seingalt e della sua fastosa giovinezza. Nel 1789 metterà mano alle pagine dell’Histoire de ma vie, che porterà a termine in tre anni, con sveltissima scrittura. Poi verranno le rivisitazioni e le varianti stilistiche dei dodici volumi, che giungono fino al ’74. Chissà che non abbia scritto molto di più.., e che qualcosa dell’Histoire sia scomparsa nei giorni successivi alla sua morte. Chi può dirlo? Il Casanova degli ultimi anni trascorsi a Venezia, quando faceva il confidente della polizia, non aveva vissuto altre avventure meritevoli d’Histoire? E se avesse scritto anche qualcosa della sua vita a Dux, oltre alle lettere su Feltkirchner, il maggiordomo che lo straziò di beffe, gli ultimi anni?
Chissà…! Le sorprese sono un dettaglio squisitamente Casanoviano.
E, a questo punto, consentitemi di dare del tu a questo grande amico, e parlargli direttamente.
Il talento che sapevi d’avere: “Tota Europa scit me scire scribere”, fa ora dire agli altri che tutta l’Europa sa che tu sapevi scrivere. Ma perché non hai voluto scrivere la storia della tua vita nella nostra lingua, scegliendo di scrivere in francese (anche se quell’idioma era più diffuso, e quindi più noto)? Rapportavi il tuo libro al gusto dominante, tu che forse – come asserisci – messa la testa a posto, avresti forse bruciato tutto? La nostra lingua non era adatta a raccontare una vita come il tuo sguardo la vide ogni giorno, per restituirti una pagina dal passo altrettanto reale? Tu hai scritto che lo spirito parla allo spirito, e non all’orecchio, e il tuo spirito era profondamente italiano. Sarebbe stata una lezione per tutti, e il tuo libro non avrebbe sofferto le pene dell’oblio.
Ciao Casanova… Ci vediamo a Venezia.

Nino Cannella

    Marcel Proust

MARCEL PROUST
di Nino Cannella
I

Gli estremi dell’anagrafe di Marcel Proust comprendono i cinquantun’anni che intercorrono tra il 1871 e il 1922; i tempi attivi della sua opera maggiore: “A’ la recherche du temps perdu“- che non vedrà conclusione - i quattordici anni tra la fine del 1908 e gli ultimi giorni della sua vita.
Ho scritto giorni, ma – per quel che è stata la vita di Marcel - avrei dovuto dire notti. Proust, infatti, scriveva nel suo letto, dal tardo pomeriggio (quando si svegliava) all’alba, quando cadeva preda del suo diurno sonno.
Nondimeno, un isolamento così radicale dal giorno luminoso è all’origine dell’opera più totale e imponente della letteratura moderna.
Come spesso accade ai grandi scrittori, dovrà faticare per vedersi pubblicato; né sono mancati grandi rifiuti di parte per un’opera che – prima d’essere conosciuta - veniva definita decadente e mondana. E non è ancora noto ai molti il mirabile giudizio su Proust firmato da Theodor W. Adorno in Minima moralia: “La grandezza di Proust sta nel risparmiare a chiunque l’ingenuità o l’arroganza di sentirglisi pari.”
La Recherche, prevista fino al 1913 in tre volumi, verrà portata, lungo la sua infinita elaborazione, a sette titoli: Dalla parte di Swann, All’ombra delle fanciulle in fiore, I Guermantes, Sodoma e Gomorra, La prigioniera, La fuggitiva (noto anche col titolo di Albertine disparue), Il tempo ritrovato. Cinquemila pagine scritte con un acume tra i più penetranti per straordinarietà e qualità di visione.
Un crescendo di invenzioni scrittorie porterà Proust a ingigantire fino all’ultimo giorno la già poderosa e quasi incontrollabile struttura dell’opera, cui non mancheranno riconoscimenti pubblici di assoluto prestigio, come il premio letterario più ambito di Francia: il Goncourt (del 1919) e la Legion d’Onore.
La grande scrittura è tale quando ogni pagina ha la sua pienezza e le sue conseguenze, e Marcel Proust le ha immerse (pagine e conseguenze) nei più profondi fondali della narrazione. Ogni sua frase ha avuto la sua mirabile conclusione stilistica, i suoi diversi movimenti, i suoi diversi suoni, e i suoi diversi colori.
Passione letteraria e trasfigurazione narrativa sono quindi cresciute tra le sue mani oltre il fine stesso del suo libro. Viveva nel suo letto, circondato da fogli volanti e pieni di rivisitata memoria, e non disdegnava di fare qualsiasi reingresso in qualsiasi luogo delle sue trame, aperte ormai ad una scrittura che viveva del suo lungo cammino e di qualsiasi stratificazione del quotidiano e dell’esistenziale. Giungerà comunque agli ultimi tre titoli incompleti; una bronco-polmonite (presa durante una visita al Louvre, per rivedere una tela del suo adorato Vermeer) ed un paio di punture non fatte (per terrore della siringa) concluderanno forzatamente la sua impresa.
Ho qui una fotografia della sua tomba, scattata diciotto anni fa, durante la mia visita al Père Lachaise, il cimitero parigino che ho avuto occasione di citare nella lezione dedicata ad Amedeo Modigliani, la cui tomba visitai lo stesso giorno. Delle tre orchidee che vi ho trovato, forse appena deposte, una sta nella mia edizione NRF della Recherche, l’altra la lasciai cadere sul marciapiede di B.rd Haussmann, via dei grandi ritrovi della società parigina di quegli anni, vissuti da Marcel come uomo e come scrittore; la terza la gettai, durante il viaggio di ritorno da Parigi, nel mare che Proust non vide mai. Il sontuoso e lucido granito nero che accoglie le sue spoglie brilla ancora nella mia mente col suo nudo nome, a ricordarmi (a ricordarci, stasera) la sua sontuosa notte.
Se pigrizia e piaceri talvolta perversi seguivano i suoi giorni, le risoluzioni della notte attiva dirigevano un’orchestra di centinaia di strumenti letterari che questo scrittore (che si divertiva a definirsi privo di mestiere) possedeva ed accordava sul miglior diapason: quello dell’intelligenza, che gli permetteva - sapendo scrivere – di poter scrivere tutto quel che la forza di una penna come la sua gli concedeva.
Lavorò sostanzialmente in progress (come suol dirsi dopo Joyce) tra continue addizioni, continue rielaborazioni e rimpasti di materiale. Quel che è scaturito dal suo esigente perfezionismo mi permette di andar oltre un’introduzione generica, e di scrivere che Proust non si risolve in generici ismi novecenteschi, cui la sua penna non si è mai affiancata senza essere essa stessa un isma completo.
Tra l’altro, l’opera di Marcel Proust è stata per molti anni uno dei miei livres de chevet, che - come tutti i libri che così si definiscono - ho letto a lungo, soltanto di notte. Le ramificazioni della frase proustiana sono ardue delizie; i favori della sua scrittura si concedono a lettori attenti, e naturalmente di altissima qualità.

II

L’opera di Marcel Proust è gigantesca: miniere immense a cielo aperto e chiuso; fucina di metalli lavorati nel modo più nobile…
Un’interiorità sterminata e una concertazione immensa scrivono pagine tra le migliori di tutte le letterature. Lo spirito e la mente operano con una capacità di scrittura che non ha rivali. Definirla (l’Opera) è andare oltre ogni impresa. Nessun botanico eccellente potrebbe, col suo sguardo, contemplare le foreste dell’Amazzonia, e i suoi differentissimi spessori, senza il terrore di una conoscenza mancata.
L’enormità del Temps è piena come la lampada d’Aladino; una cattedrale immersa nelle acque della memoria è liberata e scolpita da una scrittura oceanica che fa dell’intelligenza i risvegli del vero, e del vero i risvegli di quella. Nessuno, prima di Marcel, ha messo a punto gli ingranaggi e i motori della memoria giunta al suo ineffabile specchio. Nessuno ha fatto del dolore un rudere che ne ricordi l’inutilità dopo la sua sconfitta, e della notte il cuore delle galassie scrittorie… Nessuno più di lui ha forzato i desideri e i ricordi fino al loro farsi polvere; nessuno - come lui - ha depositato nel tempo la loro immensa e vibratile cicatrice.
Il suo stile frugherà inesausto nei tesori di una memoria inquirente e controllatissima; le sue mille porte e le sue mille notti (ma sono più di cinquemila, libere e prigioniere) sono le sue segrete ricompense al souvenir che scorre e frigge…
Invano noi navigheremmo la Recherche senza le vele di uno stesso sentimento del tempo. Dispersi tra le onde del suo mare immaginifico, l’esattezza delle sue risoluzioni scrittorie ci condurrà al destino delle sue parole come felici naufraghi approdati.
Il sacrificio di Proust è un assalto al mondo, combattuto con gli occhi del passato che vi confluisce, e dominato come si domina il toro furioso nelle grandi arene, come si dominano le anime salvate dall’immersione negli anni, e purificate dalla coscienza delle trasmutazioni dell’essere. La sua totale intimità con la sua notte diviene una lezione d’autore perfetta e intera; il suo modo di farci interrogare la sua pagina scritta, e di permetterci di rispondere, è pieno di luce.
Proust ha definito una diversa età delle parole e delle cose; il suo spirito si è compiaciuto di popolarsi di sé stesso fino a divenire vento profondo e oro dell’amore, che si svela solo nel suo ultimo consumo. La rinascita del già vissuto scrive le sue pagine con inesausta musica interiore e con fiera alleanza delle parole; l’evocazione ricorre continuamente a sé stessa e al proprio divenire.., esplica ed implica le traverse e i vicoli della realtà, e i piaceri dell’intelligenza si moltiplicano come le note di un canto perpetuo.
Colui alla cui penna niente sfugge; colui che fa della sua opera un infinito giardino di sogni in progressione continua e continuamente illuminante è uno scrittore di sterminate geografie. La velocità e l’espansione del tempo sono le sue coordinate.., l’onda delle sue navigazioni.
Continenti umani, isole e scogliere che continuamente s’inabissano e continuamente emergono in altre geologie.., polveri che lentamente solidificano e rocce che frantumano.., architetture tanto vaste quanto aperte, tanto chiuse quanto impreviste..; Proust è un atlante della vita in dimensioni e scale reali…
La verità cercata tra le trame e i rifugi del tempo: scintilla cosmica e polverulenta del vero, goccia d’interminabili fiumi, frontiera tra presente e souvenir.., comparsa e prova del Nulla… e dei suoi mille nomi reali.
Concreta come ogni condizione umana che sappia dire Si a sé stessa, la scrittura della verità è cercata attraverso la scienza dei ricordi e il possibile della loro interpretazione. Attraverso la perfezione della frase raccolta nel suo immenso abbraccio, qualcosa che ci è divenuto personale o familiare ci riconduce al dunque.
Poche altre parole per finire questa lezione: eventi e personaggi non vivono di per sé stessi quanto di un rapporto costante con l’ottica del narratore, che in essi si recupera e si celebra. Tra crisi e tra fiammate d’entusiasmo, una grandiosa risoluzione stilistica riporta sempre lo scrittore al suo voluto respiro. Il buio sprizza corpuscoli di luce, il silenzio si fa musicalmente sontuoso; tra infinitezza ed indefinitezza delle trame, grandiose o microscopiche, riferimenti intermittenti e vastità di quadri, colpi di penna e colpi di colore, noi godiamo, con la Recherche, un dominio pressoché totale degli argomenti. Gli archi giganteschi della sua penna si tendono tra altrettante gigantesche strutture, tra paradisi fraseologici cantati con maestria unica e completa.
Un’altra cosa: solo il pensiero interiore che lo ricostruisce sa dare al passato la bellezza delle congetture e l’amore per la vita reale. Migliaia di elementi attinti a migliaia di reminiscenze gli hanno fatto dire che ogni pagina della Recherche era stata scritta o pensata insieme alle altre.
Vi sembra poco saper dire che i grandi libri si scrivono così?
Si potrebbero tentare molte analisi della Recherche, la sensibilità sociale, la classe storica dei mille personaggi, i grandi riscontri del suo sguardo.., ma lascio volentieri ad altri questo compito. Il mio non vuole essere altro che ciò che è: un appunto personale, volutamente personale, per una lezione introduttiva ad un grande della letteratura del Novecento.
E non solo del Novecento…
Per gustare Proust sono possibili pagine isolate, ma non una lettura parziale dell’opera, che si autodefinisce per un tempo che è, e può essere, soltanto totale.
Permettetemi di esserne io il lettore. Leggere una pagina di Proust è sempre un piacere.
Per l’occasione ho voluto tradurre alcune pagine - le ultime - del Temps Retrouvè. Sono le pagine 1043, 1044, 1048 del terzo volume dell’edizione curata da Pierre Clarac e Andrè Ferrè per la Biblioteque de la Pléiade, Edizione Gallimard 1954.
Ma non escludo, se avremo tempo, di potervi tradurre in diretta qualche altra pagina...

Nino Cannella

    Due cose su Vermeer

Due cose su Vermeer
di Nino Cannella

Vado subito su due referenti forti: Picasso e Proust.
Delle tante frasi di Picasso, sparate qua e là come sentenze, quella riferita a Vermeer sembrerebbe irriferibile..: “Do tutta la pittura italiana per Vermeer di Delft.”
C’è un dire significativo in questa frase (come nelle sue altre, sparate) che risuona... Un sereno racconto d’ambienti olandesi, pure magistralmente luministici e volumetricamente perfetti, offre a Picasso questo esplosivo suggerimento, sottolineato come una strizzatina d’occhio. In fondo, ci sono due “sorrisi” eterni al mondo: quello della Gioconda, sulla vita, e quello di Vermeer, con la sua luce sul quotidiano.
Di qualcuno dei suoi quadri non c’è pittore che non dirà (un giorno o l’altro) che sia quello, o quell’altro Vermeer, uno dei dipinti più belli del mondo, meglio dipinti al mondo, più godibili al mondo.
L’altro (referente) è quel chimismo d’amore e d’incanto di Proust per la Veduta di Delft. I suoi pretesti per creare pagine sul pittore non mancano di stimoli: (“…questo pittore che v’impedisce di vedermi… Si può vedere qualche suo quadro a Parigi, perché possa rappresentarmi quel che voi amate, indovinare un po’ cosa c’è dietro quella grande fronte che lavora tanto…” )
- Du cotè de chez Swann -
Anche la morte di uno dei protagonisti della Recherche passa per la contemplazione di una tela di Jan Vermeer. Probabilmente anche Proust godeva il sentimento che fosse la Veduta di Delft il più bel dipinto del mondo. Era, in ogni caso, la sua la voce più potente che si fosse levata per ricordare Vermeer fuori dalla critica e dagli anni della dimenticanza. E anche se non è mio compito, né m’interessa, stendere appunti di una ricerca storico-critica che giustifichi affermazioni che in questo libro hanno solo il sapore del racconto colto (così spero…) e di una lezione da fare, mi piace scrivere che la storia dell’arte – e più generalmente quella della cultura - procedono con i soliti salti del gusto e della moda, per cui talvolta un autore lo si scopre o lo si impone più per necessità di completezza d’archivio che per il suo essere tale nel tempo e nel luogo in cui opera. La moda di una corrente del gusto porta con sé rivalutazioni di tizio e di caio più di quanto non si creda.
Le citazioni, in arte, è noto, si rincorrono continuamente, e i critici lavorano spesso con le vele orientate a questo vento.
Anche per Dante varrà la stessa cosa. Fino a tutto il Seicento il suo nome significava altro da quel che significa dal Settecento in poi.
Talvolta sono pittori sconosciuti che ne hanno riconosciuto o rivalorizzato altri, e quando vi entrano i primi, nella storia dell’arte ci saranno pagine d’attenzione anche per i secondi.
Questo è detto perché la pittura non ha bisogno di esprimere idee se non c’è un mestiere, una visione particolare, una visione essenziale che le esprime; e questo i pittori lo sentono e lo scoprono più d’altri… Tante pitture che non si legano specificamente a quel tempo e a quell’ambiente possono produrre altrove il loro tempo, il loro ambiente. Tanti artisti li si guadagna oggi, ed altrettanti si perderanno nel futuro. E’ nelle cose.
D’altronde se per il gusto di quei tempi andavano per la maggiore Rubens, Rembrandt e chi altro, non poteva esserci spazio per gusti più diversi, né per tele, tra l’altro, decisamente piccole come quelle di Vermeer. La stessa pochezza numerica dei suoi quadri ha fatto sì che la circolazione dell’opera fosse ridotta a pochi ambienti, nè si capisce quanto il pittore si facesse pagare, per guadagnarsi da vivere con così poche tele dipinte…
Morto a quarantatre anni, e consegnato (come detto) all’oblio per un paio di secoli, Vermeer si è visto parecchie sue tele ricoperte con firme d’altro nome, per farle circolare in più avvedute mani di mercante; ma se pochissimi sono i quadri che ci restano (poco più di una trentina considerati autentici) di tutti si apprezza la filosofia e la tecnica di una visione che coglie nell’istante più quotidiano l’eternità dell’immagine.
Cosa offre Vermeer sul piatto della pittura?
Pittura Pura.
Vermeer copre d’un passo la distanza dall’Olanda al mondo. Immerse nell’evento di un motivo quotidiano ritualmente ordinato, le sue donne (semplici, lettrici, lattaie, modelle o merlettaie, casalinghe comunque) mostrano un’interezza che parla tutta col respiro dei corpi, che è carica di esatto fare, un fare ripreso come essenza di un presente totale, seguito e fissato puntualmente nel suo farsi e fermarsi.
Immaginare il concreto e concretizzare l’immagine con i valori del pittore richiede il dominio della luce e dell’ombra, perché solo esse danno corpo esatto alle cose. Quel corpo che in Vermeer è densità di luce: figlia e madre del colore.
Dirigere quell’orchestra d’oro e di miele, o di perle di un gioiello antico lavorato nel modo più fine.., sinfonica come la nobiltà raggiunta dalle cose comuni evocate da un tale sguardo maestro, è controllare ogni riferimento tra il visibile e l’ideale.
Osserviamo qualcuno dei quadri riprodotti; l’azione è ferma perché concentra ogni atto nella sua composta estensione, nella perfetta profusione della luce, nei suoi brillanti cromatismi. Quella luce che manca all’Olanda, e che (nel poco che c’è) sa concentrarsi, come vedete, nelle liturgie di un’immagine precisa.
Dentro gli Interni di Vermeer l’aria è satura di sè, è aria silenziosa per chi ascolta i suoni e i respiri di quell’ora.
L’immagine che include le premesse e le conclusioni del gesto, con i suoi colori in azione tra spazi millimetrici succosamente spremuti, ricorda un altro racconto delle cose, quello dell’esistenza rappresentata nel suo liturgico quotidiano…
Oggetti in giusta parte discreta, contemplazione di un’ora intima e limitata, su cui l’orologio comunque si ferma; finestre che immergono luci e corpi nella stessa sostanza; in questo senso il raccolto teatro dei piccoli quadri di Vermeer li isola, e le figure, dipinte per sentirsi osservate dal suo sguardo, ne comunicano il silenzioso piacere di chi sa che qualcuno, con incantata curiosità, li controlla.
Osservate le luci dell’ocra e dell’azzurro… Veramente il colore le assorbe e le assapora. Delicata imponenza della seta, musica fusa e insieme saltellante… In ogni quadro si dipinge la stessa cosa.., eppure nella fermezza della pittura tutto sa muoversi. Assente è il resto.
La stessa partitura disegnativa, finestre nello stesso luogo della tela a invaderla di stessa luce, a profonderla animata dallo stesso pensiero; carico degli oggetti quasi sempre in basso a sinistra, e – con la sola eccezione della Merlettaia, di una Donna alla spinetta e della Fede (nella Allegoria) – anche le posture dei modelli e gli sguardi volgono a sinistra, verso la fonte luminosa accordata dal vetro e dal ferro…
Ricordiamo che la visività degli angoli del mondo ai quali il loro pennello s'interessa, per i pittori, è sempre esclusiva: un modo di vedere unico, un imporre l’essenza del proprio gusto, un trattamento personale del testo. Anche i muri delle sue tele, presi sempre come sfondo, partecipano con la loro luce molle e la loro accogliente e risonante piattezza, l’accordo di situazioni squisitamente sceniche e otticamente pensate per uno strumento nuovo dell’occhio: quasi una lente a mosaico, che cura le cose in un contesto superiore a quello del punto di vista centrale ed espanso, garantendo quindi un maggior valore formale rispetto a quello prospettico e psicologico o comunque interpretativo del dipinto.
Vediamone qualcuno
Le due donne che leggono una lettera (della Gemaldegallerie di Dresda, e del Rijksmuseum di Amsterdam) hanno un profilo simile e una stessa postura, ed emergono più o meno nello stesso modo dallo spazio della stanza, una stessa inquadratura dentro spazi diversamente dimensionati. Il loro disegno taglia esattamente a metà il loro corpo, che ci concede la parte sinistra, ma l’avventura prospettica delle architetture è diversa.
La donna in blù è senz’altro incinta, l’altra ne ha l’apparenza, per un possibile rigonfiamento del ventre, nascosto dal profilo delle mani ma suggerito dal largo cadere della gonna.
Naturalmente non intendo parlare di fisiologia delle donne, ma di una tenda, della quale va anche a me di dire che è la meglio dipinta al mondo: di un colore più bello di quello della pelle umana; una caduta dell’ordito delle linee, strette, ampie od oblique, che gelosamente ed imperiosamente raccoglie lo sguardo, invitato dai riflessi dei capelli della lettrice e dalla curva rigonfia della manica, accordata a quel colore, che fa da contrappunto alla parte gonfia della tenda. L’ombra raggrinzita e sontuosa, nel tratto ampio delle pieghe, la luminosità vibratile ma controllata delle parti in luce, sono un saper vedere (un’invenzione) che ha dell’eterno, e se non questo, una temporalità magistrale. Altri contrappunti sono tra le pieghe ampie e corpose del tappeto e quelle acute della tenda rossa racchiusa come una conchiglia sul lato alto dell’anta della finestra. Tende che non vanno spostate, tende oltre le quali non si fruga… Sono loro che vogliono essere viste; sono loro che occupano lo spazio del pensiero pittorico puro.
Un’apparenza e una compositività da istantanea fotografica si adattano ad uno straordinario umore visivo e vedutistico. La suprema naturalezza dell’ambientazione, di cui Vermeer è padrone (e con mezzi personalissimi, anche se dell’apparenza più semplice) è carica di vero umore quotidiano; gli oggetti hanno un riferimento diretto e totale alla loro forma reale, né la tenda dell’una o il colore del manto dell’altra potrebbero avere una tinta diversa, un diverso raccogliersi e modularsi delle pieghe. Leggibilissima armonia immediata e tipica di chi sa vedere le cose sotto un aspetto noto e sicuro.
La lettrice in blu propone uno sguardo più diretto, privo della curiosità curvilinea che ci guida dentro gli antri dell’altro dipinto. La sua presenza si impone sul limitato spazio che l’accoglie, e gli oggetti che la ingabbiano segnalano un angolo della loro modesta e partecipata presenza: architettura solida e serena curiosità d’essere presenti col blu grigio e con l’ottone dei ribattini sul panno delle sedie. Naturalmente, in tutti i quadri, non manca l’angolino di più viva luce in cui far cadere un rapido sguardo d’appunti: la busta della lettera, le mele sul vassoio obliquamente adagiato, così come negli altri quadri che vedremo: una moneta tra le dita del galante toccatette, o la caraffa di densissimo lapislazzuli (nella stessa tela), la boccia bianca della Ragazza assopita col braccio sulla tempia, del Metropolitan, quella del Gentiluomo e donna alla spinetta, di Buchingham Palace, il foglio bianco del Geografo di Francoforte, sguardo immerso in terre sconosciute, la luce senape sulla panca della Donna che beve, dello Staatliche Museen di Berlino, la biancheria nel cestello nell’altra Lettera d’amore del Rijkmuseum di Amsterdam, i fili bianchi e rossi della Merlettaia del Louvre.
A proposito, quel palmo di pittura (che è l’unica tela di Vermeer che ho visto dal vero, a Parigi) era il miglior dipinto al mondo, per Renoir.
Ogni cosa possiede ed esprime una luce che sembra provenire dall’interno (altra cosa comune ai dipinti di Vermeer: la luce delle perle, interna ad esse). Anche le pianelle dei pavimenti…
La Lattaia, poi, è tutta luce, anche nelle ombre aggrumate sul pane.
Un narrare attento e coinvolgente…
E adesso, per finire, godiamoci senza parole la Ragazza con turbante del Mauritshuis… Ciascuno pensi le proprie…
Lei ha una curiosità per tutti.

    Una lettura delle Majas di Goya

Una lettura delle Majas di Goya

Celeberrime.., e per molti anni considerate opere proibite, queste Veneri Andaluse, o Gitane, sono il primo esempio (nella Desnuda) di Nudo trasgressivo in pittura da cavalletto. Dipinte dal vero nel 1800, non sono però direttamente ispirate dal corpo della donna effigiata: presumibilmente la duchessa D’Alba, amata dal pittore. La gentildonna in questione non avrebbe mai posato nuda per Goya.
Per l’immediatezza visiva - tra spregiudicatezza d’allora e gusto spagnolo - costarono una denuncia dell’autore al tribunale dell’Inquisizione spagnola. Va da sè che ebbero anche da quel fatto la pubblicità che le ha seguite e che ne ha fatto due dipinti conosciuti in tutto il mondo.
Da un secolo stanno al Prado, a Madrid, e sono state anche riprodotte nei francobolli spagnoli, e - come mi è capitato di leggere - facevano rispedire al mittente la corrispondenza indirizzata negli U.S.A, se affrancata col soggetto desnudo.
Maria Teresa Cayetana de Silva, duchessa D’Alba, doveva avere circa trentotto anni, e Goya non meno di cinquantaquattro…quando, per una probabile storia d’amore tra i due, il suo pennello fissò il tema di una passione e si permise di far spumeggiare certe tradizioni del Nudo, concedendogli le forme del vissuto, perché tale è la carne (la posa, la pelle) dello splendido nudo che vedremo. La duchessa D’Alba, tra l’altro, morirà poco dopo la firma dei dipinti, a quarant’anni.
La vicenda del Goya pittore (e particolarmente quella delle Pitture Nere della Quinta del Sordo) l’ho già esposta nella lezione a lui dedicata, insieme a Rembrandt (nel ‘97/98), ma ritorno sul tema di Goya per chiudere con una mia personale lettura delle Majas l’anno accademico 2001/2; una lettura impostata in termini propri alla mia cultura di pittore.
Tra linguaggio oscuro e visionario delle “Visioni Fantastiche” e dei “Sabbah” già trattati precedentemente, e un tema così comprensibilmente vicino alla fantasia dei comuni mortali, devo dirvi che anche quelli che lo sono meno (che comuni) conosceranno un Goya privo degli incubi pittorici delle altre sue tavolozze.
Andiamo subito sui testi: La Desnuda mostra un corpo sensualissimo e privo di quelle levigatezze assortite che pure crearono la storia e la plastica del Nudo femminile in pittura. Il seno è di un valor tattile supremo; la pelle respira tutta l’armoniosa anatomia che ricopre; l’ombra del corpo sul cuscino proietta le sue trame scintillanti con melodiosa sicurezza spagnola. Corpo che, come vedete, ha molta vitalità, e produce una proposta così ravvicinata di sé che il desiderio evocato prende il La, e si accorda con l’invitante soggetto.
A voler essere accademici – ma non è il mio caso - c’è una nota dolente: l’impianto della testa sulle spalle non dimostra continuità anatomica col resto del corpo. C’è un difetto di impianto, una torsione innaturale che fa apparire la testa quasi estranea al corpo che l’accoglie. Sembra, come dire, bassa e spostata rispetto all’asse cervicale; messa lì in evidente difetto di disegno. Ma vi ho già detto che la duchessa D’Alba prestò solo il volto al pittore; il corpo da mostrare nudo era di un’altra donna. Anche le braccia sono eccessivamente robuste, e sono quasi - e anche meno che quasi - flaccidamente muscolose, come è in molte braccia femminili dipinte da Goya.
Anche il torace, come il seno, è sensualmente invitante. L’ombra verdastra tra il secondo cuscino e il fianco induce a circondarlo (il fianco, il fine schiena) con una presa d’amante. La carne è soda: senso e voglia di fecondità, invito a istinti forti… e neanche tanto segreti…
L’ombra sulla parte alta del petto è continua e priva di trame e soffusioni coloristiche, forse per la difficoltà (irrisolta) di concludere le aggiunte tra il corpo del Nudo e la sua testa.
Sulla parte anteriore delle cosce, la stessa ombra distesa segnala la variante di campo e l’obliquità dello spazio tra ginocchia e pube, la cui luce, splendida e corposa, sembra luce di perla: nascente dal di dentro più che spalmata in superficie. L’altra luce, così come la luminosità diffusa nel dipinto, è giustamente tenue… e quasi tutta presa dai prodigiosi cuscini e dal lenzuolo disteso anteriormente sotto le gambe.
E’ una lettura ottica la mia, ripresa sugli stessi testi foto-grafici che proiettiamo, ma qualsiasi quadro, per una lettura veloce e comunque ottimamente approssimata, può essere conosciuto anche in riporto fotografico, se si ha l’occhio eser-citato alla vista di quadri. Anche i cuscini dicono la loro..; sono tra i più belli della storia dell’arte.., di realissima morbidezza, e – se vogliamo giocare con le parole – di fortissima individualità. Fondamentali nella costruttività del dipinto, occupano una parte architettonicamente importantissima nel lato destro della tela, e l’equilibrio della postura del nudo non li fa pen-dere; anzi - sollevati come sono - lo accolgono tra il loro pieno e il vuoto dello sfondo, gravido di luci brune imprigionate, nella parte sinistra e alta del quadro. Dirli un pezzo di pittura assoluta è il minimo. Sono più curati del corpo stesso: traspa-renze di supremo verde in pittura che è pittura pura, ordine su-premo d’idee.
I capezzoli dolcemente sanguigni e tenerissimi sono quelli di una giovane vergine; la frangetta bassa sulla fronte ottunde il volto, ma la cosa (l’espressione) sembra caricare un desiderio, una teoria del desiderio espressa anche dal rosso che accende le guance e spinge verso la virgola del bianco dell’occhio, che fa parlare la luce ambrata dell’iride.
La rigida marcatura delle sopracciglia è tratto pesante e schematico di questo capolavoro; per contro il gioco delle luci sulla semisfera del seno sinistro si proietta in una macchia d’ombre intermittenti e morbidissime tra le pieghe del secondo cuscino, che recupera un mestiere pittorico altissimo. Non c’è colpo di pennello che se ne stia in silenzio…
L’asse del disegno che sostiene il corpo nel suo leggero avvi-tamento nello spazio introduce le pieghe del lenzuolo, che decorano la forma chiusa delle gambe e delle caviglie. Anche i piedi sono quelli di una giovinetta. L’ombra, o la luce rosa-viola del tratto posteriore del lenzuolo, ritorna delicatissima nella sua frangia anteriore, a guidare la vista sui ginocchi, e più su dei ginocchi…
Lo sguardo della Desnuda è impercettibilmente alto sullo sguardo diretto dell’osservatore, ma comunica un sentimento di scoperta fantasia… Erotica.., e chi non la vorrebbe..!
A suggerirlo c’è anche il fatto che l’ombelico è il centro esatto del dipinto.
(Perdonerete, spero, gli squisiti dettagli che ho imposto, sviluppando la mia personale lettura della "Desnuda", ma i miei limiti sono, purtroppo ed evidentemente, quelli di un povero ignoratello che arranca sulla sua scarsa e inutile cultura. In una civiltà di uomini super-superiori come i miei compaesani e conterranei - i primi votati alla più alta intelligenza umanamente possibile - devo cercare di sopravvivere con i miei pochi mezzi. Non oso, né ho speranza  d'essere accolto dalle menti superiori che popolano angolo per angolo i miei dintorni. E in più mi sfuggono i nomi ai quali rivolgermi, ma numericamente penso siano tredicimila, e devo riservarmi il posto di ultimo. Ahimè!...sopporterò la pena.)
Andiamo sull’altra tela, adesso. La Vestida, ha luminismo e colorismo più squillanti, ed è di grande immediatezza visiva e di altrettanto grande vigore pittorico. Qualcuno ha osservato come sembri più alta e slanciata della Desnuda, e questa sia più minuta, ma la cosa non si evince dalle dimensioni delle tele, che sono identiche (0,95x1,90). Anzi, la Vestida è sensibilmente più ravvicinata, e quindi sembra distendersi in una maggior lunghezza, e le cosce, pur mantenendo quasi la stessa posizione della Desnuda, sono meno ripiegate verso il grembo.
Inutile chiedere quale delle due vi va di preferire, perché è una domanda di molti. Formalmente si equivalgono per qualità; l’ispirazione pittorica (nel suo senso tecnico) è la stessa, anche se la Vestida è più squillante nel bianco delle stoffe del suo abito di Maja, e le luci sono più dirette, almeno perché sembrano fatte a fette dalle pieghe del costume, lì dove il corpo desnudo le curva.
La parte alta di entrambe le tele toglie spazio all’inquadratura naturale della posizione del corpo, basso, ma non reso apparentemente tale rispetto al punto di vista dello sguardo del pit-tore, e conseguentemente dello spettatore.
Nella Vestida, le parti hard del letto segnano in minor misura il confine tra il suo corpo e il fondo, e lo sguardo tende a sci-volare sul corpetto dorato.
Quale delle due Majas sia stata dipinta per prima non mi è noto, e credo che - senza documenti storici specifici – non sia possibile dire una cosa certa in proposito.
La semplicità di dipinti come questi, in sé complessi, e la complessità di dipinti di impatto visivo immediato non ha no-me; chi è abituato a contemplare con occhi di pittore una compostezza del corpo totalmente ceduta, ed un’immobilità vissuta e contemplata, vedrà un corpo raccolto e cantato sub specie melodiae e coglierà uno status pittorico altamente armonico e sinfonico.
Decisamente Goya interpreta e rasserena una passione in for-ma d’alta cultura e d’alta poesia. Cosa normalissima in un grande pittore… Naturalmente occorre un’intelligente lettura per farle proprie. Questa, intanto, è da ritenersi l'ultima mia lezione UNI 3.

Nietzsche

di Nino Cannella

Il ritratto che segue non è che una riscrittura recente, con opportune e veloci varianti più propriamente legate alla filosofia del Nostro, di una mia compilation dei viaggi in Italia di Friederich Nietzsche, scritta per l’UNI 3 di Guspini, nel 1998, e pubblicata in un mio vecchio e parziale “Scritti sull’Arte”, con relativo seguito di informazioni sulle opere composte, concepite o abbozzate dal grande pensatore nel nostro paese, durante le sue frequenti permanenze. Non volevo far altro – allora - in quella conferenza. Ma qualche tempo fa, chiacchierando per mezza sera con un giovane professore assistente di Storia Contemporanea all’Università di Siena (che mi chiedeva qualcosa di Nietzsche veniente dal mio pensiero privato) ho buttato giù queste colonne che il Medio Campidano si compiace di pubblicare… Nessuna schematizzazione, dunque, nessuna interpretazione tecnica del suo pensiero o dei suoi libri, ma un mio disegno personale del profilo di questo straordinario pensatore, che tanto - senz’altro - deve alla nostra cultura, e a cui tanto deve lo stesso sottocritto (che di maestri-amici ne ha avuti più d’uno in campo filosofico). Qualsiasi filo conduttore nel Pensiero Nietzscheano passa per la lettura diretta della sua opera, e solo di questa; né io sono studioso di cose filosofiche, né mi sognerei di dar Nietzsche in pasto a lettura di chiunque. Non sono un critico, né uno storico della filosofia, né aspiro ad esserlo; io sono un pittore che…di tanto in tanto…si diletta di scrittura, con penna e pensiero rigorosamente propri e personalizzati per sé stesso. Il mio intento sarà vagamente simile a quello di Edvard Munch: fare un ritratto di Nietzsche senza averlo conosciuto personalmente da vivo (così come anche fu per il nordico pittore), ma averlo eletto ad amico personale – così come è stato per Proust, e per Casanova, i cui ritratti sono già stati ripubblicati in questo mensile. La vicenda umana di Nietzsche è stata senza dubbio un grande destino, la sua filosofia essendo – più di ogni altra a me nota – in prima persona, e assai poco adatta a trovarsi impaginata in qualche paragrafo dei libri che trattano di storia della filosofia. Era uno degli uomini più colti che il mondo abbia avuto. La qualità del suo pensiero, morale o letteraria, lo pone tra i fondatori del Novecento e delle filosofie dell’avvenire. La sua espressione filosofica, per aforismi e non per sistemi, è una fontana d’acqua zampillante per viandanti solitari disposti a proseguire nel ristoro, nel viaggio e nella solitudine conseguente i grandi pensieri. “Chi va infatti per queste vie non incontra nessuno, scriveva nell’autopresentazione di AURORA, “ed è questo che comportano le < vie tutte nostre>”. La sua fama è stata ed è immensa; la mia ammirazione per lui, che considero mio fratello maggiore, è totale…virgola cinque. Ho cresciuto in me consonanze fondamentali con l’architettura e la musica del suo pensiero; ho avuto tutta la sua opera per almeno una terna di lustri…fissa e mobile nel mio comodino, e molti dei suoi punti di vista ho vissuto o respirato come uomo che guarda le “sue” cose nel mondo del possibile, e guarda il mondo nelle “sue cose” possibili. Qualche pagina da leggere più o meno tutte le notti… Io leggo soltanto di notte, almeno una mezz’ora tutte le notti, da oltre cinquant’anni.., da che ho imparato a leggere. Di giorno dipingo o scrivo, o faccio altro; i cavalli della mia carrozza hanno sempre bisogno di biada, anche se quando accendo il motore rumoreggiano pistoni d’auto da pista (…provare per credere). Ovviamente si astengano da misura, o gara, gli abituali conduttori di vecchi motocarri mentali. Gareggino tra loro altrove, prima di infastidirsi per il musicante rombo di marmitta della mia fuoriserie che manda spesso fuori strada gli altri. Non ho atteso la prima elementare, né l’asilo (quest’ultimo mai frequentato) per apprendere i rudimenti infantili della massima comunicazione umana (nel senso che questa è sempre un saper leggere. “Intelletto”, “intelligere”, significano proprio leggere dentro: dentro l’altrui intelligenza quanto dentro la propria, per chi voglia avere l’intelligenza di soppesarle, sia l’una che l’altra, chinando il capo quando è il caso). La mia prima educazione pre-scolastica me la diede mia madre, figlia di un poeta. Ma non per questo i miei ritratti d’autore…di autori ne impongono due, lo scrivente e l’effigiato, come qualche lettore ha già capito, e come volevo che fosse. Torniamo al Nostro… La sua follia, che lo colse a Torino - facendolo stramazzare al suolo, dopo aver abbracciato un cavallo fustigato dal carrettiere – fu altrettanto totale. Non si riebbe mai più. Ma il filosofo divenuto pazzo a quarantaquattro anni non ha nulla da spartire col suo destino clinico, e ancor meno con le manipolazioni ideologico-politiche che ci sono note, da una parte e dall’altra. Era unicamente un responsabile pensatore; un pensatore d’altissimo registro etico e dialettico. Per sottintendere il Nietzsche della vecchia cultura primo novecentesca sia sufficiente far riferimento alle tare ideologico-marxiste di chi (come anche Lucaks, per quanto grandissimo intellettuale) definiva tara dell’irrazionalismo borghese la nietzscheana trasvalutazione di tutti i valori, con ciò applicando il suo concetto di tara ideologica a chi non aveva le tipiche tare ideologico-marxiste di tanti intellettuali di quell’area, o il loro piccolo borghesismo proletario, diffusissimo per molti anni che furono, in quel pezzo di mondo verniciato a loro uso e consumo. Questioni di solita falsa coscienza, quanta sempre se ne vede.., e talora, purtroppo, spesso vincente… Nietzsche è inquietante e supremo per la somma, per la divisione e per la moltiplicazione del suo pensiero…non meno che per la sua luminosa geometria. Per l’ambizione e per la verità che lo sostiene, per l’impeto dell’indagine e per la vitalità letteraria, siamo ai massimi livelli del pensiero scritto; la sua penna è tra le più alte della scrittura in lingue europee. Il vigore dei suoi pensieri è pura energia spirituale trasferita in inchiostro di altissima qualità. Il compito superiore del filosofo ha fatto esplodere polemiche aspre e sfrenate, ma la lucentezza dei pensieri è d’acciaio. La loro passione: la conoscenza, l’adamantino del possibile; pensieri nuovi per quello che lui voleva fosse un nuovo decoro del mondo. Non uomini legati ad una catena di loro piccole stupide potenze, o di piccoli stupidi amori per cose o donne o vil danaro, ma fasti e spessori profondi e alti per una nuova storia dell’umanità a immagine e somiglianza dell’uomo reso superiore dalle sue energie possibili. Provocatorio e sofferto, solitario e inquieto, fuggitivo e diverso (come sono tutti i filosofi – che se non fossero provvisti di simili qualità non sarebbero tali), misterioso e geniale fino alla fine, egli rimane ancora un precursore a lunghissime scadenze. E.., per usare le sue stesse parole – riferite a Spinoza, e forse anche a Schopenhauer - che razza di precursore! I luoghi dove egli è possibile sono i grattacieli del libero pensiero, e le altitudine delle montagne del libero spirito. Questa l’educazione dell’uomo! Altissimi sentieri; per camminare in alto, e per “in alto” vedere. E, a proposito di questo, voglio impegnarmi in una nota personale che lo riguarda: tanti riti e tante liturgie della vita, religioni comprese - senza filosofia – sono bigottismo e fanatismo anche pericolosi se non si incorre in un minimo di sophos, di ragionevolezza umana; così come la filosofia – senza un’intima sua religiosità – si ridurrà al rango di speculazione mentale fine a sé stessa. Ciò che educa al vero e al conveniente (parlo nel senso del bene dell’intelletto che vuole praticare la retta vita) è un coltivato ed evoluto libero pensiero. Questo il mio punto di vista sul vivere la vita. In tutto quel che ha scritto, Friederich Nietzsche vi ha messo anima e corpo, superiore individualismo, e gigantismo d’artista, e - diversamente da molti filosofi - non si è preoccupato di trattare problemi puramente intellettuali. Molte delle sue svettanti intuizioni sono da considerarsi come onestissime confessioni della condizione umana sparate al cielo. La sua penna poteva permetterglielo. Senza mezzi termini, un giorno, il pensiero e la considerazione di sé gli faranno scrivere, ad un amico: “Io voglio tanto da me, che sono ingrato verso le cose migliori che ho già fatto; e se non riuscirò a far sì che interi millenni facciano i loro voti supremi nel mio nome, ai miei occhi io non avrò raggiunto nulla.” E ad un altro: “Chissà quante generazioni dovranno trascorrere per produrre persone che riescano a sentire dentro di sé ciò che io ho fatto. E anche allora mi terrorizza il pensiero di tutti coloro che, ingiustificatamente e del tutto impropriamente, si richiameranno alla mia autorità… Ma questo è il tormento di ogni grande maestro dell’umanità; egli sa che, in date circostanze del tutto accidentali, può diventare con la stessa facilità una sventura o una benedizione per l’umanità.” Come tutti i filosofi, tenterà naturalmente anche lui la descrizione o l’analisi della “vera essenza” del mondo e dell’uomo, ma nessun lettore dimentichi però di adeguarsi al significato sempre sostanzialmente sperimentale di ogni filosofia. Essa varia e zoppica quanto e più di quanto varia (o vada claudicante) il mondo. Il senso della sua filosofia, rinfrescante acqua da bere, è nel sentimento di una concezione forte, la suggerita vera misura dell’uomo che vuol dire Sì alle forme più alte e più elevabili della vita, condizionandola anzi che subirla dagli altri, e – quel che è peggio – dai mediocri e dai meschini, dato che l’unico “eterno ritorno delle stesse cose” sembra essere quello di questi ultimi. Sono le grandi energie creatrici individuali che informano il mondo e le folle, in un continuum di rinascimenti dell’uomo, e lo si vede tutti gli anni in innumerevoli esempi di grande creatività, cui sempre segue il parassitismo degli utenti, che non servono ad altro che a consumare, nel globalismo talvolta più idiota. Ma quando Nietzsche annuncia la possibilità del superuomo, la maggior parte dei mortali culturalmente inadatti o inefficienti…solitamente si spaventa – e anzi che vederne il destino, la lungimiranza – vede solo la punta del dito del filosofo che indica, e decontestualizza il termine. E così è, sempre e comunque… Come Cartesio dubitò di tutto, per poter rifondare la conoscenza, per Nietzsche avanza e corre la stessa maratona: verità ed etiche talvolta minuscole e consunte sono da mettere nell’altoforno di un’altrettanto rifondata conoscenza. Pensiero negativo, dunque, in felicissimo esordio tra filosofie dell’aurora, del mattino, del mezzogiorno, del meriggio, della sera e della notte (come amava talvolta definire i suoi pensieri nati camminando). Un mondo nascosto al pianeta, e un pianeta nascosto al mondo non vanno bene per il suo idealismo costruttivo dell’uomo nuovo. Troppe forze mentali inesplorate.., evocatrici di una volontà di potenza.., e – per converso - piccole identità che bloccano e immiseriscono il corso della vita… Per esse, una più potente strutturazione dell’umano, che faccia fronte a questo eterno e continuo livello paleoantropico delle possibilità dell’uomo. Non tutti i pensatori hanno manipolato cose così grandi. Questo il mio disegno, fino alla penultima linea… E per chiuderla, in questo mio ritratto personale del mio grande fratello antico, voglio regalare a chi vorrà leggere, non meno che a me stesso, il Prologo alla sua autobiografia spirituale: Ecce Homo (Come si diventa ciò che si è), così facciamo chiacchierare un po’ anche lui. <“Poiché prevedo che fra breve dovrò presentarmi all’umanità per metterla di fronte alla più grave esigenza che mai le sia stata posta, mi sembra indispensabile dire chi io sono. In fondo potrebbe essere già noto: perché non ho mancato di della mia esistenza. Ma la sproporzione tra la grandezza del mio compito e la piccolezza dei miei contemporanei si è dimostrata nel fatto che questi non mi ascoltano, e neppure mi vedono. Vivo a mio proprio credito, o forse è un pregiudizio che io viva? “Chi sa respirare l’aria dei miei scritti sa che è un’aria delle cime, un’aria forte. Bisogna essere nati per respirare quell’aria, altrimenti si corre il rischio, non piccolo, di raffreddarsi lassù. Il ghiaccio è vicino, la solitudine immensa, ma quanta parte di mondo sentiamo sotto di noi! La filosofia, così come io l’ho intesa e vissuta fino ad oggi, è vita volontaria tra i ghiacci e le alture – ricerca di tutto ciò che l’esistenza ha di estraneo e di problematico, di tutto ciò che finora era proscritto dalla morale. Attraverso una lunga esperienza di itinerari nel proibito, ho imparato a considerare le cause per cui fino ad oggi si è moralizzato e idealizzato in modo assai diverso da quello che comunemente si richiede… Quanta verità può sopportare, quanta verità può osare un uomo?”> Supremo dolore, suprema rabbia, supremo riscatto di chi ha visto immense sciocchezze, insensatezze e caos governare il mondo nelle sue piccole parti. Immense, e pure applaudite. Eccovi una lettera di Lou Salomè che parla di Nietzsche a Roma: “Fu a quell’epoca che la sua fisionomia, tutto il suo aspetto esteriore apparivano più nettamente caratterizzati: l’epoca in cui l’espressione generale del suo essere era già totalmente pervasa dai profondi moti interiori, e traspariva anche in tutto ciò che egli tratteneva e celava. Vorrei dire: il nascondersi, l’intuizione di una segreta solitudine; questa era la prima forte impressione da cui si era colti in presenza di Nietzsche. All’osservatore distratto non appariva nulla di particolare: que-st’uomo di media statura, nei suoi abiti estremamente semplici, seppure curatissimi, dai tratti pacati e i capelli scuri pettinati all’indietro, passava facilmente inosservato. I fini lineamenti della bocca, fortemente espressivi, erano quasi completamente nascosti dai grandi baffi pettinati in avanti. La sua risata era sommessa, parlava in modo disteso, la sua camminata era cauta, meditabonda, un po’ incurvata nelle spalle… Incomparabilmente belle e di forma aristocratica erano le mani di Nietzsche, che anche lui considerava rivelatrici del suo spirito... Quanto ai suoi occhi, parlavano in modo estremamente rivelatore. Pur mezzo ciechi, non erano sempre strizzati, scrutatori, involontariamente importuni, come quelli di molti miopi; sembravano piuttosto i custodi posti a guardia di intimi tesori, muti segreti, che nessuno sguardo estraneo doveva sfiorare. La vista difettosa dava ai suoi tratti un incanto tutto particolare, in quanto essi, invece di riflettere le mutevoli impressioni esterne, rispecchiavano solo quanto si svolgeva nel suo animo, questi occhi guardavano nell’intimo, e al tempo stesso in lontananza, ben oltre gli oggetti presenti. La sua ricerca di pensatore non era altro che un’indagine dell’animo umano, alla ricerca di mondi inesplorati, delle sue possibilità non ancora fino in fondo esaurite, che egli si creava e ricreava incessantemente. Quando si rivelava com’era, nell’incantesimo di una conversazione che lo trascinava, a volte nei suoi occhi poteva comparire un bagliore commovente, per poi scomparire subito, quando invece era di umore cupo, da essi traspariva fosca, minacciosa, la solitudine, come da profondità sconfinate: quelle profondità in cui egli restava sempre solo, che non poteva condividere con nessuno, di fronte alle quali a volte egli stesso era preso dall’orrore, e in cui alla fine il suo spirito sprofondò. Nella vita quotidiana era di una grande cortesia.., nei rapporti con le persone amava le maniere distinte, e vi attribuiva molto valore. Ma in ciò c’era sempre anche il piacere del “travestimento”: mantello e maschera di una vita interiore quasi mai messa a nudo. Ricordo la prima volta che parlai con lui a Roma – era un giorno di primavera – nella chiesa di san Pietro; quello che mi colpì nei primi minuti, e mi ingannò, furono le sue maniere ricercate. Ma non mi ingannai a lungo su questo solitario, che portava così maldestramente la sua maschera, come uno che viene dai deserti e dalle montagne porta la giacca della gente comune. Ben presto affiorò la domanda che egli stesso formulò con queste parole: “ La furbacchiona non lesina i suoi giudizi gratuiti e tutti femminili su un uomo alla cui causa di follia non fu (forse) del tutto estranea. Ho letto quattrocento pagine di lettere del carteggio tra Nietzsche e la Salomè, per trovare possibile la cosa, per via dell’acutissima indignazione di Friederich Nietzsche, quando le cose del loro sodalizio vennero travisate. La maschera di quel che mostra la signorina Lou è molto evidente. Quel suo assemblaggio di attenzioni ai dettagli fisici del filosofo confluisce in modo subdolo e plagiante sull’ultima domanda (che in Nietzsche è altra cosa, ma che la Salomè vuol rendere criticamente propria, per insinuarla altrove). Ricordo i primi anni Settanta, quando il nome del più grande filosofo dell’Ottocento, e uno dei massimi dell’umanità, era quasi impronunciabile nei beceri ambienti del limitato costume politico d’allora. Successivamente, grazie ai lavori di Massimo Cacciari, che tolse i chiavistelli alle serrande abbassate sul suo nome, Nietzsche svetta imponente ai culmini del pensiero contemporaneo. Ben più di Kierkeegard, di Bergson, di Wittgenstein, di Kassirer, di Adorno… Il 3 Gennaio 1889, crollo mentale di Nietzsche. Morte nel 1900. Spengo ovviamente ed umilmente il mio Ferrari, per salutare un grande fratello, e chi mi ha seguito con la sua ottima automobile da corsa, sapendola guidare. Critici e nemici veri e propri non ne ho… Non è specie endemica, e si tratta di mestieri umani che van saputi fare. Niente chiacchiere, abituatevi al sottoscritto…altrimenti riaccendo i motori… E corro in pista!

Canto Zero (Introduzione alla Trilogia "Cattedrali del Ragno")

Che dice, e che non dice

Un misterioso programma imploso al tempo zero attraversa la trilogia: un principio anteriore già pronto al teatro.., una sorgente primordiale che attendeva le valli del karma per farsi fiume. Difficile incipit. Due parole di senso contrario, strettamente legate ad unire concetti contrapposti, dissolvono le loro frontiere; ciò che è misterioso non sottende un programma, e ciò che è programma non sottende mistero. Si annienta persino la formula operativa del tempo; il suo battere non aveva estensione. Tempo, dunque, che non potrebbe esistere: tempo zero. Viscerale paradosso! Il divenire è sempre relazione tra il tempo e ciò che lo anima di fatti, ma non sempre il tempo delle donne in azione è volto in avanti. E se ci son di mezzo traditori della vita, o donne di stessa sostanza, avrà il suo fine e la sua fine già predisposti nel suo valore zero, padre di quell’irraggiun-gibile principio anteriore. Se la duplice battuta in quattro note che dà l’esordio alla Quin-ta Sinfonia Beethoveniana può ben raffigurare l’impronta del destino che bussa alla porta, la trilogia canta il verso contrario: il bussare alla porta non precede ma segue il suo ingresso. L’ho chiamato karma: farsa del vero, che oscilla e decade sul pendolo degli istanti imprevisti…ma complici. Dunque, contro-romanzo della memoria, la trilogia; vicende già pronte al teatro del tempo zero, un sipario volutamente aperto dal caso, e un orizzonte degli eventi donna, che spesso vortica tra il prima e il niente, tra il dopo e il nulla. Per questo, tra scrivere il vivere, e vivere lo scrivere riattraversando le somme compiute, sta una doppia avventura. Il rapporto dell’una cosa con l’altra oscilla tra diversi orologi, indicatori di presente e memoria da un lato, di pensiero e scrittura dall’altro. Può accadere nella vita (anzi, personalmente ritengo quasi privilegiante che accada) di rientrare con passo completo in una frazione del mondo anteriore, in una sua eco, i cui richiami sono e furono inalterabili. E anche se tra il tempo di viverle e il tempo di scriverle stanno troppe energie pensanti, mi è andato di farlo. Una memoria inquirente non disdegna, per sua propria na-tura, percorsi a ritroso: altre cartografie del vero.., altre superfici immaginifiche e sconosciute al pensiero che svelava il presente. Se la vita cammina percorrendo i fatti nel presente che li propone, la si capisce solo tornando indietro. Chi segue il vivere, pur senza prevederne gli anticipi e i postumi, sa che le rappresentazioni del presente - quando il presente include quei traditori dell’umano - sono generalmente sempre al diecimila, e un decimetro di fatti (nella memoria totale) era in realtà un Kilometro ridotto a una riga del foglio del giorno. Difficile cogliere, nel farsi improvviso degli inganni, dimensioni pari ai segreti del vero nascosti in fondo ai linguaggi di una donna. Far camminare i fatti con le loro gambe è imperativo categorico tra le pagine; lo stesso che muovere lo sguardo in tutti gli angoli del possibile, specchi, caverne, fossati e tumuli, e dare a qualsiasi spazio attraversato al diecimila le misurazioni di un percorso “uno a uno”. Per questo ho voluto scriverli; non per un inerte ritorno su vie già percorse con l’occhio sul loro presente, ma per tracciare su carta ciò che in genere non si racconta, né si comunica, per buon gusto, e per schifo. Trenta, quarant’anni do-po, l’eccezione confermerà la regola. Tra memoria e scrittura, cadaveri perfettamente conservatisi possono dissolvere le loro polveri dentro l’acqua della loro morte; ma un campionario di dettagli assurdi può sempre reclamare un’ottica filosofica sulla vita offesa da tristi puttane. Il mare dell’eterno femminino, oceanico quanto potenzialmente insito in una goccia d’acqua malata è il fluido di questi libri: materia molle cui dar valenza sinfonica. Letteratura proibita e partitura pericolosa per il direttore d’orchestra, dunque, quali che siano i numeri incorruttibili e le note di pietra cui dar virtù strumentale. Diverse le stagioni, diversi gli anni, diverse pure le latitudini geografiche e diversi i climi degli amanti, ma lo stesso agguato imprevedibile e improvviso regnò sovrano. Donne! Quattro! Ma potrei aggiungere molti zeri, e contenere in essi un numero altrettanto corrispettivo dei miei quattro esemplari attraversati. L’imprevedibilità femminile sa riempire di sé stessa qualsiasi cifra; sa far vibrare qualsiasi strumento a fiato o a corde ad ogni scoccar di pausa. La beata evanescenza d’ogni presente umano – contemplato tra precedente e successivo – non è la sola misura che esprima la cifra della scorrevole vita. Il presente dei fatti è un tempo troppo immediato; un’immagine con lo spessore dell’attimo non concede l’intera realtà del suo farsi, né consente di considerarla al di fuori del suo valore apparente. I passi del tempo sono solo un approssimato presente, quando in quel farsi camminano, ma sono più reali del vero quando si fermano e guardano tra passato e futuro già vissuti. Ciò che il portato della memoria ha in sé fonda questa scrittura, voluta come un arduo tentativo di conoscenza: ricercare quell’impossibile che accade dentro gli eterni improvvisi che – lo si voglia o no – sono nascostamente espressi ed espressamente celati nella finzione di certe donne, e nella loro laevitas animi, che tutti gli uomini chiamano imprevedibilità femminile. Che la conoscano o meno, ciò dipende da quanto ne sono stati implicati, per sfortuna o privilegio. Certi fenomeni interni al principio naturale della seduzione sono sorprendentemente simili ai codici erotici che informano la morte di certi aracnoidi e certi insetti - che non ha senso spiegare per il loro attuarsi spontaneo e senza causa. Quei codici esistono, e non c’è altro che la loro esistenza; il significante sarà impossibile. Mantidi uccidono e copulano al solo scopo di generare femmine che uccidono e maschi da decapitare. Eros e thanatos, semplificati in una dimensione entomologica, sono i continui “convitati di pietra” nel banchetto offerto dalla speranza donna. Saper testimoniare attrazione e mistero stando ben attenti al risveglio dei ragni e al profumo di mantidi malcapitate è l’azione, il progetto del libro. La musica interna delle note al femminile va conosciuta sugli strumenti che la producono e le acque che la bagnano, deformandone l’onda sonora. Ma saper vedere non è sempre saper prevedere. Per quanta intelligente percezione delle parti, il giorno che fluisce non offre altro che il suo con-trollabile farsi nel presente che lo contiene; ma tra i volti e i profili del dopo (che diviene somma del tutto), un’altra visione di quel che si può conoscere calcolerà i suoi numeri veri. Questo, la trilogia: un controcanto tra carta e souvenir. Storie personali di valore impossibile o prossimo al niente, perfettamente descritte nelle loro vicende; nulla di più, nulla di meno di quel che accadde sotto le leggi e le sregolatezze dell’imprevedibilità femminile annunciata. Gesti di donne il cui insito chimismo è venire al mondo palpitanti tra coincidenze banalissime e circostanze illogiche; gesti interdetti all’intelligibile, in quanto recano il nulla, volutamente sorgente dalla psicologia abissale di certe femmes. Quattro protagoniste della notte donna, quattro universi il cui pesante cielo ho percorso sul filo d’attimi tonanti; nient’altro che quattro avvenenti Ondine, quattro sirene di cui far giocare le parti con sé stesse, facendo esplodere i loro falsi limiti di donne. Nel frattempo, un’ulteriore scoperta di quel che vi stava dentro: un telaio di imprevedibilità ordite da naturale indole distruttiva. Sarà il controvalore dell’evidenza, firmamenti diversi e più oscuri, dove un fulminante buio scaricò la luce nera che l’attraversava: la falsità offerta al vero in cambio del preteso preci-pizio dei malcapitati nei fondali delle paludi. Strane figure di sirene apparse col puntuale ticchettìo del loro orologio personale: vero protagonismo donna che non ebbe nulla di meno di un tradimento del proprio alleato durante le fasi cruciali di una battaglia. Quando si tratta di far libro che sia sostanza e impronta di un vissuto inconciliabile col passo dovuto alla vita s’impone la natura di due cose: lo scriverlo e il leggerlo. Tra la conoscenza che si fonda interiormente perseguendo parole e sillabe di propria nascita, e quella spedita al destinatario, e costruita passando per evocazioni e dintorni, la comunicazione naufragherà sull’acqua di due lingue: quella parlata e quella udita. Ma tutto intendo, meno che farti naufragare in una memoria inquirente che ricerchi il vero dentro l’impossibile. Dare forma e vista dei fatti alle diverse distanze che la lettura ha insite in sé (una per ogni lettore), è impresa diversa dalla passività del leggere indagini personali che si estendono in territori che hanno un’identità specifica. Compiere una misurazione ipotetica che non vive e non si confronta con l’indagine reale non fa realtà di lettore. La “realtà” è propria del contemplatore diretto, dell’abitatore del castello dei fatti. Agli altri, per forza di cose, ogni storia apparirà intuita con spessore e volumi diversi, per via di uno sguardo talvolta frammentario e sempre fisicamente indiretto. Per poter valutare la sua dimensione interna - la terza – la scrittura autobiografica aggiunge la quarta: il tempo; che vaga tra distanze e note che cambiano continuamente timbro e colore, contemplando ogni cosa dalla forma del suo nascere a quella del suo concludersi, dal suo confine iniziale al suo confine finale, che soli danno l’intero sinfonico e il suo romanzesco reale. E qui dentro c‘è tutto, meno che romanzo; il tutto nel suo farsi, istante per istante. La storia stessa (nel suo senso umano) non si ghermisce e non si fissa nel presente in cui le sue forze agiscono e le sue risoluzioni si attuano. Scadenze più lunghe ne penetreranno l’interno. Colpi di scena e colpi di pensiero, dunque; e qui saranno indagini a teatro con permesso d’ingresso nelle misurazioni dovute. Quando nel cosmo femminile delle false note risuona una circostanza improvvisata insensatamente, ma potenzialmente capace di sconfinare oltre il suo limite, il contrario del vero prende corpo…e pulsa di una sua strana verità; l’alto diventa basso, e il basso sale ad una sempre precipitante altitudine. E - non occorre dirlo - ciò che sembrava integro e pieno si frantuma e si svuota. Miracoli del male. Le strade che attraversavano coscienza e trama d’ogni cosa diramano in un dedalo di stretti e taglienti vicoli oscuri, e questo labirinto privo di una superficie dialettica leggibile, e di una giustificazione per poter nascere, ho definito imprevedibilità femminile: un dilagare verso l’impercorribile, verso numeri che non consentono operazioni. Appeso al filo di una sciocchezza improvvisata insensatamente, l’ordine umano delle relazioni perde il suo sangue; si è dentro i giochi di una donna: provvisori ed eterni. Difficile argomento… La vela soffia sul vento, e sotto una barca che galleggia inerte si muove il mare… Come tradurre il movimento? La bestia improvvisa (il karma minore) sceglie il momento. Solidità, sublimazione, evanescenza della sorgente, sono la stessa improvvisata magia, lo stesso imbroglio. L’inaspettato è in opera! Il grande corruttore… Per aggredirlo, se si vuol chiudere il suo passo, e spegnerlo, occorre aprire il suo focoso cammino. Ed è il peggior rischio: aprire e alimentare fiamme per chiudere e spegnere… Per varcarlo e ridurlo a sé stesso bisogna combatterlo nel suo forte; per farlo precipitare occorre sollevare le sue zampe in aria. L’abisso della bestia è forse tra le nuvole? Non è un piccolo problema; occorre saper vedere ciò che è molto piccolo, e l’inaspettato sa come ridursi al minimo; ma andare avanti con i pensieri in quella strada prevede continui ritorni alla fonte del pensiero stesso. Altro pericolo: tragedia dei linguaggi che consumano sé stessi per poter dire. Voler penetrare dove non c’erano fessure; è stato questo l’andare di queste donne: correre nel vuoto delle pretese lacerazioni. L’unico artifizio che consentiva di attraversare quel vuoto era di crearlo come tentativo, zolla per un germoglio del male, universo che non esiste; che non esiste…ma che si riflette in quel tentativo, e quel riflesso diviene il suo corpo. Valuterai la com-pulsione vaginale che con puntualità sa farsi improvvisa tra cosce e cervello di certe donne che disonorano tutte le responsabilità e le valenze dell’umana fisiologia del bel sesso. Che quel “qualcosa” di immateriale e di istintivo che le spinge ad essere stupidamente perfide e perfidamente stupide sia per loro una prerogativa concessa dalla loro natura…pone il concetto del “senza causa”, a sovrastare i ridicoli misteri connessi alla creazione di Eva. In questo senso il dato portante della trilogia è l’unicum fattosi col niente cui una donna sa dare gambe molto lunghe; una lunghezza difficilmente amputabile, l’imprevedibilità femminile essendo freccia senza fine che percorre il mondo degli istanti senza causa: puntualissimi baratri asserviti al suo potere. Ma la scioltezza istintiva con la quale certe donne compiono passiva-mente le loro scelte malvagie la vedi solo se sei direttamente im-plicato nel vedere. E’ talmente levitante che - al confronto – la polvere atmosferica è piombo in lingotti. Si sa che tutto ciò che non è diretto è insignificante, per l’incomunicabilità di una ragione vissuta, e solo il trovarsi davanti a forme minimali di ferocia istintiva del “bel sesso” sa far vedere in essa il senso del non senso, i luoghi del non luogo, l’azione del non gesto, il muoversi del non moto: la goccia occulta del veleno donna. Per avere sguardo dentro certi cervelli che all’improvviso attuano il non senso, il non luogo, il non gesto, la meta in un non moto.., il non questo e il non quello, bastano cose minuscole che non dovevano essere, né cadere da nessuna parte. Non erano provviste di ragione umana per superare la definizione di stranezza di una donna, e costringersi a viaggiare in galassie prive di spazio e di tempo, in cui prossimità e distanza si confondono con le misure del “non essere” che “è”, e dell’essere che “non è”. L’imprevedibile sta più in quelle meschine minuterie che altrove, e il loro territorio è sterminato. Quando donne si materializzano nei luoghi in cui farsi incontrare proprio per compiere in quel modo il loro viaggio…non c’è altro che una segreta ragione di thanatos. E - da qui - una trappola improvvisata e gestita percorrendo impensabili sentieri a passo trasverso; uno zig-zagare che non sta in alcun tracciato di terrestre e umana geografia. Quale istinto le autorizzasse al proposito di cercar momenti privi di estensione e di confini, sarà un interrogativo superiore, superiore e continuamente incombente. Ritenerle extraterrestri che provenivano dal loro ignoto è poca cosa, ed è ben poco anche dire che fossero extragalattiche. Decapitavano situazioni senza corpo, e questa era la circostanza più violenta di quel totale paradosso: il peggior dato di fatto. Un non corpo su cui far cadere una lama improvvisa per tagliare una testa che non esisteva…ma che per loro doveva cadere. Il peggior modo, insomma, di rendere reali nella loro mente aliena una testa mozzata, una lama, e una vittoria del destino donna. Qualsiasi interrogativo, qualsiasi esclamativo che verrà è categorico non meno che letterario, e certamente indipendente dalla magra pochezza del canovaccio che recitavano. In questi libri ogni nozione va giustificatamente sommata alle altre. Non c’è niente da decontestualizzare; le note sono state orchestrate nei riscontri postumi delle azioni svelate, ma sono da conside-rarsi dietrologia necessaria all’imprevedibile che mi accingo a trattare. La scrittura dell’autobiografico impone, per sua natura, registro dei fatti vissuti e pensiero personale, entrambi attualizzati e nello stesso tempo sommanti memoria e totale: quella memoria che fa dei “fatti” il loro farsi e il loro cadere nel tempo e nello spazio umano: somme concluse che scolpiscono la statua del ricordo. Ricordi e farse sono nella vita di tutti; ma quel che fa diversa la potenzialità e la narratologia delle cose è il peso del farne scrittura, vero registro analitico della vita. E in queste pagine ogni sguardo sarà puntato con un occhio che avanza e l’altro che vede all’indietro. La loro leggerezza, o la loro pesantezza di sguardi e di pagine, porta allo stesso dunque: l’imprevedibilità femminile assediata. E solo in questo senso io faccio teoria: un raccontar di donne dentro cui circolava sangue verde. L’unico bacio che non si poteva dare, l’unica frase che non si doveva dire, gli unici secondi che non dovevano battere, l’unica lettera che non si doveva scrivere, così come le tredici carte - sono quel che ha da spumeggiare nelle lunghe pagine che seguono. Quel che esalerà in finale di ogni partita sarà identico per tutte le protagoniste: un’identica immagine di eventi vissuti…bruciatisi nell’ultimo giorno e fattisi fumo all’istante, volute di fumo com-poste in forma di orribile teschio annerito, dai cui anfratti caver-nosi, cavità oculari, nasali, otiche, arcate dentarie, spuntano grovigli di crotali e nidiate di contorti scorpioni. Ovviamente il potere passivo e tentacolare di certo istinto femminile che si risolve e si dissolve in quel fumante teschio (e parlerò solo in questo senso, e relativamente a me) prendeva corpo nel farsi del primo contatto, nel momento in cui i miei passi convergevano con la direzione e il verso di cattive stelle che dai fondi del loro luciferino firmamento proiettavano sull’ombra delle mie scarpe i loro raggi neri. Quasi ragni discendessero da quelle stelle appesi al filo portante delle loro ragnatele da compiere prima del prima e dopo il dopo… Una sigaretta accesa avvertirà i miei occhi…in attesa di un treno in ritardo; un’altra s’accenderà nel mio risveglio al Foro Romano. Un’altra, in una pausa che leggerai. Un’altra…in una finestrella fiamminga. Grazie, dunque, alle blondes rivelatrici, che s’accendono lungo l’ora dello scalpitare degli zoccoli del Karma! A ferrare quegli zoccoli, un “terzo giorno” comune: pilastro dei racconti.

…per l’uso della trilogia…

Quando si fa memorialismo occorre abilità da giocolieri; nessun pezzo deve sfuggire di mano, nessuna carta volante precipi-tare inconclusa per terra. Dirigere lo sguardo e le intenzioni della scrittura verso tutti i riscontri del pensabile pretende l’esercizio di identiche capacità. Non c’è da saper fare altro che proiettarli su occhi sempre attenti a pelle e scheletro dei fatti. Allo sconcerto delle apparenze che sfilavano sotto i passi di quattro donne farà da contraltare la filosofia sui fatti: il concerto. E’ arduo e forse anche pericoloso inseguire storie di donne con la penna.., scrivere il muoversi del loro andare. Le forzature necessarie alla lingua che vuole parlarne spesso si reggono faticosamente…se non si ha polso che sostenga struttura e senso del vero da tradurre in verbo. Perfetta riflessione e controllo del peso delle sostanze immerse nell’inchiostro, dunque; ma that is the question! L’imprevedibilità femminile ha insita la tendenza a condurre la riflessione verso le sabbie mobili dell’inazione linguistica, e occorre un potenziale privilegio per annientarla. Quel che procedeva sotto i passi di quei ragni (o quel che fossero) mi era stato rivelato nella sua bastarda matrice, e ora che quei giorni sono divenuti materia per scrittura, spiegare il generarsi senza causa di certi fenomeni interni all’imprevedibilità femminile darà parole e suono a quel respiro disperso nel temps; e scrivo solo per questo. A rendere possibile la scrittura che sta dentro le stanze della mia penna sono dunque questi atti unici: una foresta pietrificata in cui risuonano le note di un comandamento e un memento più eterni del bronzo. Una formula scrittoria senza sconti all’interpretazione di codici impenetrabili è stimolante. Sarà l’intero e l’interno della trilogia: una lampada accesa su equivoci cerimoniali agli angoli della vita, gesti che non ebbero alcuna ragione d’esistere se non per la nascita imprevista e sfrontata che li partorì e li impose. Azioni che non ebbero piedi per potersi muovere, né base per sostenersi in uno spazio modulato in quel modo.., ma che riuscivano a compiere il loro tragitto stando fermi, senza sottendere altro che la forma dell’informe femminino: questa realtà “autre”, quest’universo estraneo e dominante. L’astrofisica nel cielo delle cose umane è scienza esatta per l’anima intellettiva che percepisce totalmente la fenomenologia di storie sue personali, e in esse può vedere attualizzato e realmente configurato solo ciò che è lontano nello spazio e nel tempo. Tra costellazioni che configurano come appiattita la posizione di stelle lontane tra loro, proiettandole in un unico piano apparente, o tra supernovae che esplodono, la verità fenomenica è nella diversità degli spazi e dei tempi rispetto alla loro apparenza relativa. Si può discernere oggi la luce di una stella esplosa molte migliaia d’anni prima della comparsa dell’uomo. Esplodeva allora, e noi possiamo vederla esplodere solo ora che non c’è più; possiamo riconoscere nell’attualità soltanto un’e-splosione già avvenuta…per via del suo bagliore propagato. E questo non è un paradosso, ma la formula del tempo relativo alla tua visione, che non coincide col tempo reale dell’esplosione stellare. Quando l’osservazione consentiva di vederla esplodere…non c’era, e quando esplodeva non la si poteva vedere per ragioni di sua distanza nello spazio e nel tempo. Tutto il pesante inchiostro da utilizzare per interpretare il lì e allora come qui e adesso trova qui la sua giustificazione teorica. In quell’esplosione di stelle si esterna il nucleo e implode la loro superficie: le situazioni si ribaltano, e l’uno prende il posto dell’altra. Il fenomeno è previsto, tipico e diffuso nell’universo. A considerarlo, adeguandolo a vicende umane (che vanno sotto la stessa legge), si individua la stessa cosa Il lì e allora sono sovrani quanto il qui e adesso, che pur senza contraddire il dettato degli eventi descrive quel che è stato: quattro brevi vicende informali della mia vita, un quadruplice farsi di quel che non doveva accadere. I fatti sono la sua formula, senza far storia di me, né del mio altro esistere in tempi e spazi ben al-trimenti reali. I referenti della mia vita sono pensiero e volontà confortati dall’azione esterna, e la mia esistenza è totalmente attiva nei confronti del mio quotidiano, e non ha da stare in questi libri. Anche altre donne tra le molte incontrate sono altra vicenda, altra teoria, altro fumo della vita. Imprevedibilità e movenze della donna gatto sono dettame biblico per molti uomini, ma di queste quat-tro storie particolari ho rilevato epigoni ed esordi fondati unicamente sul mio trovarmi lì e allora in quell’ora di storia (quale che fosse) senza che io la cercassi. E su quella diversità di situazioni scolpitesi come un corpus identico lavorano le pagine che vogliono scrivere quel che delle cose era in sé, e quello che delle cose non era in sé per fatti presentatisi come un destino che darà quel teschio. Non si avrà da considerare quindi che quattro storie del mio vivere delimitate e tramate dalle oscillazioni di un telaio di nascosto karma: percorsi di quel che capita “così”, quel così che si divertì ad ordire situazioni senza base e senza causa, in un precipitare improvviso che riusciva a incombere diabolicamente sulle ali del caso, ingabbiarlo e piegarlo alla donna. E tutto quel che veniva al mondo era già crisalide annunciata! Impronunciabile quel significante… Solo brutali improvvisazioni potevano renderlo tale, e dargli il suo cammino tracciandolo nella mia pelle in istanti impossibili. Se una causa fosse stata, questi non sarebbero mai caduti nel cerchio dei fatti, perché donne non sarebbero mai state nei luoghi in cui il loro demone decise di farle incontrare con me. Ma proprio lì e così caddero le cose: un farsi di assurdità sostanzial-mente identiche. Una che va e una che giunge..; e un mio metter piede inavvertitamente sopra serpenti arrotolati come sterco: stazioni perverse di quel che non doveva accadere. Quel che sfilò da un pretestuoso sabot di carte, quel che è stato in Rome – Paris, e quel che sarà sul pendolo di trenta secondi, sarà storia d’identiche crisalidi. Avevo la vista naturale dei miei occhi, ma non un sospetto impensabile da concettualizzare e gestire nel farsi istantaneo e improvvisato di ciò che faceva nascere vista e sospetto. Se davanti a certe buie imprevedibilità guizzate alle spalle di uno sguardo si tira dritto, non per questo l’azione subita resta priva di quel veleno che il suo palpito espira. Sta qui il farsi più oscuro di quel che sembrano sciocchezze, e solo una lunga analisi vi riconosce strani organismi pulsanti: le più basse offese perpetrate da donne mancanti di natura morale e di onore di sè. L’imprevedibilità, di cui questi libri tentano di penetrare i veli per sfiorarne il significante impronunciabile, è il tragitto (il teatro del tempo zero) che si compirà. Qualsiasi sia l’ambiente ope-rativo, incontrare e riconoscere Lilith (la Lilith delle antiche leggende, di cui chi vorrà andrà a documentarsi, senza però farla coincidere col mio senso personale dato a quel nome) può essere l’incombenza di storie agli angoli di qualsiasi vita. Orientamenti e tragitti diversi – ovviamente - quelli della penna che scrive: un tracciato per la comprensibilità adattata a qualsiasi lettore, un altro per lettori più comprovati, e pagine per pochissimi che vogliano affrontarle. Qualcuna – nondimeno – comprensibile soltanto a chi scrive, perché l’autore comunica direttamente a sé stesso, per voler leggere sé stesso come parte implicata in un ego narrante e speculativo, con tutta l’interezza del vissuto posseduta e annotata sotto il suo inchiostro specifico. Disordine e grado degli eventi che accadranno non riflettono che la loro più squallida assurdità, per cui occorrerà misurarli palpito per palpito. Il registro dell’ironia, quello della pietà e quello dell’accu-sa, non mancheranno la turpitudine dei non sense di quattro donne idealmente corrispettive dell’eterno femminino. I fatti registrati sono interni ad una matrice di troppa oscurità operativa per voler sommare sciocchezze del giorno come fossero tali e solo tali. Non potevano stare dentro sé stessi, nè dentro il mondo, se non per l’insana volontà di prodursi senza causa e senza testo. Quelli che la chiamano imprevedibilità femminile non dispongono che di dizionari in tutte le lingue del pianeta, il cui lessico è ridotto e insufficiente. Ma non per questo Lilith è protetta. Introdurre la propria mano sotto la sua gonna, o (per meglio dire) in quella gabbia…senza ingabbiare sé stessi, è possibile se si sa dare un nome e un attributo commisurati alle balle infuocate scagliate da una catapulta donna. Cos’altro premettere..? Pensiero intero ed unità dialettica sul va et vien della menzogna donna sono a disposizione del mio calamaio e dello specchio di Perseo. Un fantasma travestito da evento fu natura e corpo delle donne di questa trilogia; una volontà parassita al di sotto della vita era il loro comune respiro, ed è questo che farà karma e cattedrali del ragno. Cattedrali agli an-goli dell’esistenza, vetrate ed absidi e cori ed altari come luogo di un rivissuto totale, riflesso totale di fantasmi vestiti di vita che hanno avuto proposito d’esistere dopo un bussare che seguiva un ingresso. Cos’altro promettere..? Un viaggio nell’interno di quattro cervelli donna, allèe et retour. E’ la strada che riattraverserò. La difficile arte di un libro non ha bisogno di operare su fantasie trasfigurate, per riuscire a far dono di sé. Un granello di vita, perfettamente contemplato e totalmente narrato, può far scrittura non meno alta di storie immaginarie esistenti solo sulla carta e nelle teste dei loro inventori.

APACHES… Y GUSPINEROS (prefazione al XII libro di Memorie Della Mia Vita)

APACHES… Y GUSPINEROS
(a pasci…guspinèddus)

QUASI UN TESTAMENTO

Il titolo spagnolo, tradotto in parlata locale, ben colora il senso del sottotitolo di questo Quasi Asterisco.., e tratta il particolare costume del far gli indiani nella rovinante Guspini.
Facce di assai sbiadito rossore mescalèro, e musi che paiono scolpiti nel sughero; questo il dunque! E questa la valenza di molti locales, particolarmente adatta alla specie. Ma le troppe “concas de ottìgu” che qui abundant vanno sapute pascere e tosare, amigos.
Ed è noto che Nino Cannella non si limita a semplicemente definire, come il poeta di Recanati, i deserti mentali di varia gentixedda zotica del natio borgo.., mummificata nel cervello e più imperitura del bronzo. La pesta e la ripesta come va pestata e ripestata. In testimonianza e in difesa di un civile e buon paese, che potrebbe (ma non riesce a) esser migliore, ci pensa la mia penna a sistemare certe tribù codificate da involuto D.N.A, e - come al solito – refrattarie a mutazioni positive. A meglio definire quella (sì e no) mezza dozzina di neuroni funzionanti dentro quei cervelli espressivi quanto una patata “cotta a buddìu” ci vuole poco. Dentro una casa mentale non più grande di una scatola di fiammiferi – come è la loro - non può esserci altro. Parlo ovviamente del classico guspiniente, sempre ben distribuito in ogni ambiente, e sempre ben accampàto dentro un’inerzia di bassa guspinitùdine.
In questo senso Apaches y Guspinèros farebbe volentieri da introduzione, o da post-fazione, al mio XIII libro di Memorie Della Mia Vita: duecentotrenta pagine d’analisi del “paese dei Kimincipongiudèu”, e delle tante marmaglie che hanno osato sfiorare impropriamente il mio nome, la cui altezza li sovrasta di molte altitudini. (Cosa, questa, che a Guspini è nota anche alle pietre, anche se le pietre, come si sa, non tendono a parlare…)
Dirli Apaches, o dirli Piedi Neri di varia genealogia, non è uno scherzo lessicale; in questo teatrino contemporaneo locale non han mai fatto un bischero, se non abusare, con la loro presenza vanesia, dello spazio atmosferico che malvolentieri li avvolge.
In relazione a tutta quella quantità di materiale umano e sociologico che mi trovavo ad analizzare, Asterisco dopo Asterisco, fu conseguenza obiettiva e necessaria, - nonché altamente didattica - pigliare educativamente “per culo” (come suol dirsi) una certa parte della popolazione che si trascina tra i reticolati de lu paese con la sua propria guspiniente essenza: caratterialità che sempre riesce a sopravvivere a sé stessa, dominatrice delle atmosfere locali.
Asterischi, dunque, in forma di atti memorabili del mio quindicinale punto di vista su quei troppi guspinazzi che caratterizzano il cimiteriale carnevale quotidiano. L’andazzo del pueblo, e quei 1269 guspinèddus le cui testoline seguono a ruota, sempre intente ad emergere dal casu marzu che le accoglie, sono un buon riempitivo (ormai) della bara sociale del paese. Tutti sono stati “attenzionati” con vero piacere di mia penna, dando occasione al mio tempo libero di scrivere di loro. E anche se tempo libero ho ben poco, la cosa è divenuta un libro tra i miei tanti: un abbondante Diario Minimo Locale, del quale forse conoscerete anche l’Asterisco Zero, una parte del quale è (per chi sa leggere) già interna al “Testamento”.
Testi occasionali, quindi, ma non più di tanto…
Trascinare nell’arena, e fronteggiarla, questa parte specifica e ridicola del paese in cui si vive, è stato un grande divertimento. Farlo, poi, senza tema che alcuno osasse prendere posizione rispetto a quel che scrivevo - colorando l’inchiostro in giusta e fluida tinta - ha definito uno stile di scrittura che non poteva essere diverso da quello che si leggeva, fuori e dentro le righe.., sopra e sotto il testo.
Salvo balordi anonimi malipigàus e sempre prediletti dalle scelte “professionali” della Gazzetta, tutti gli altri (bontà loro!) si fingevano sostanzialmente e formalmente assenti e silenziosi per paura di confronto e scarsità di calamaio.
E c’era da capirli! Misurarsi in pubblico concerto con un “pianista” come il sottoscritto non è cosa semplice. Riesce male…a certe orchestre sbandate di strumentisti scordàti! Così come lo sarà per chiunque altro! Meglio una finta e mascherata indifferenza del loro calante piffero, che tirar di sciabola con Nino Cannella, o cadere sotto la sua stilografica.
Confusa tra i tanti guspinesi che stimano ed apprezzano il frequentare le mie conversazioni e la mia colta amicizia – dunque - s’agita una parte di popolazione fatta di mezze calzette e di troppi mezzi cialtroni – che tali definisco con un semplice sguardo e verbi di silenzio.
Di questi ultimi due “mezzi insiemi”, nessun elemento ha mai saputo rivolgere verso la mia direzione occhi in sanità di pupilla, e in dovuta elaborazione cognitiva del nervo ottico, forse perché dietro quello c’è sostanziale assenza d’elaboratore… Un naturale strabismo e un “callonismo” connettivo (e collettivo) sono la sola cosa che di questi individui faccia storia: miseria intellettiva e pecoraria ignoranza più che altro. Oltre non vanno, tra le ossa del neurocranio: ventose che contengono tutt’al più un sottovuoto d’aria d’olezzo stantìo. Non riuscire a capir nulla dell’opera dell’uomo e dell’artista, solo perché stanti troppo al di sotto delle sue potenzialità (molte delle quali già messe in atto in lunghi decenni), ha dimostrato bene la piratesca presunzione e l’arrembaggio con cui questi apaches sanno spendersi nel mercato identitario locale. Troppi gradassi imbalsamati nel loro guspinèro niente - che ben li rappresenta a tutto tondo - quando si permettono di cincischiare alle mie spalle: “Chi crede d’essere costui?”, si sciacquino la bocca…e chiedano a sé stessi quanto vale il loro niente gregario. Si chiedano chi credono d’essere loro, prima di blaterare a bocca sciocca contro il sottoscritto! Nino Cannella sa rispondere e combattere con ottimi argomenti in faccia a vigliacchi e fanfaroni, e immergerli in tutto il loro niente.
Una mentalità così sbagliata, e tanto malvestito esistenzialismo criticoide (centro, periferia, dintorni e rattoppi) vorrebbe permettersi di considerare me col suo occhio bieco e ipovedente?., col suo vocabolario vuoto?., col suo non voler capire..?
Direi proprio che se non sono scimuniti, o marziani, sono peggio!
Oh! Perbacco! Da dove vengono..?
Che ci sia il sacrosanto problema del mio punto di vista contro il loro, non gradiranno intenderlo, né tantomeno prendere atto e tener conto di una cosa così scomoda; ma (ahiloro!) la cosa è da considerare. Nei tribunali di un civile comprovare le cose, i giudizi relativi sottendono dignità di verbo solo quando sanno affrontare temi e formule del fare e del conoscere, non quando sono balorde chiacchiere figlie di una negativa invidia che qui è madre di troppe cose, di troppe ignoranze, e di troppi guspinèros.
Il mio (punto di vista, ed è testamentario, e molti ben lo sanno) funziona componendo grammatica e sintassi di una lingua attiva e calibrata sulle cose che sa definire con chiarezza, e controllare con ordine intellettuale. Il loro pare soltanto cronica cecità nei miei confronti:
un’incredibile e pazzesca ignoranza per occhiali, così come tuppònis per orecchie, e quella già
detta casa mentale non più grande di una scatola di fiammiferi.
Più sbagliati dell’errore, come si permettono di ritenere sbagliati, o fuori canone gli altri?
E’ forse il loro, il canone? Non mi facciano ridere!
Che non abbiano mai capito dove hanno piedi e testa…è fuori discussione (e sarebbe una parolaccia indicare quel dove). Parafrasando qualche sua briciola filosofica, si può dire la stessa cosa che diceva il buon amico Kierkegaard, riadattandola (con la mia penna) a molti guspinèros: “sembrano croci sulla tomba della speranza Guspini.”
Se son questi i cactus della desolata Arizona locale, povero lu paese! Assediato a destra e a manca..! Povera guspinitudine!
Gente con cervello così paludato non se ne trova in tutte le contrade; e va da sé che fustigare ridendo mores non serve a niente. Nondimeno, definirli come ho sempre fatto: clessidre mezzo vuote e mezzo piene di sabbia, che rivoltata ogni volta ricomincia da capo ad insabbiare sé stessa e le cose, è il minimo. Sabbia e niente...
Ad accomunarli è l’eterno guspinezzaio che molti e molte pòttanta cravìu in conca: vera e propria pompa che spinge la loro linfa infetta da inestirpabile superficialità critica. Li conosco da lunghi e larghi anni, e il mio sguardo deve attraversare tutti i giorni la cocciuta vicenda di questa repubblica anarcoide dei Kimincipongiudèu. Ma inzaccherare i miei stivali sulle strade di questa genìa di piumati sottosviluppati (apaches o non apaches che siano) non è da me; non è nel mio passo. C’è un’altra Guspini, civile e buona, che vado attraversando: una solerte e dignitosa moltitudine che sa stare con discrezione al suo posto. Ma quando in certa patria pascolano intellighenzie inette o presuntuosamente semiacculturate, la lenta palude – se non ve ne siete ancora accorti, integerrimi miei compaesani – cerca di riappropriarsi dei suoi luoghi; e lo si vede ogni giorno, per la testarda inerzia di chi ha sempre mancato di rivedere il suo povero status, e ridiscutersi. Quando forfora e crusca in testa sono l’unico sistema mentale di questi poverini che mai ammettono la loro plumbea nientitùdine, la loro crusca in testa gliela impasto io. Non mi va bene che ci sia troppa gente – qui - che quanto più respira la pochezza del suo proprio essere, tanto più pasce il suo sangue di quel disvalore. (E fatemi la cortesia di rileggere tre volte quest’ultima frase!)
Che tutto il mondo sia paese…è sconfitta e verità certamente utile ai filosofi che indagano; ma nascita e crescita del negligente costume eternato in piazze e riserve locali sono un mistero sempre incinto, e una realtà che partorisce ogni giorno. Nelle case mentali degli apaches guspinèros c’è qualcosa che li fa veramente dei campeones del mundo.
Cam…peònes, per finirla alla spicciola, il cui cervello non è un volume mentale operativo, ma zarra e barra galleggianti su una stagnazione che non emana altro che puteolente invidia. Un “corratzu” abituale dell’esistenza, e un’etica sommaria votata al pressapochismo, fanno la parte insana di kisto paese (per la malvagia ignoranza di troppi apaches, a molti dei quali Nino Cannella ha regolato i connotati).
Qualsiasi cosa misuri il loro “andazzo” te li fa nemici subdoli ed informi. Infastiditi dalla qualità del mio saper agire (compreso il mio saper scrivere di loro - radiografandoli per quel che sono), anzi che guardare in faccia la loro colpevole negligenza, gli apaches guspinèros cercano di vomitare il rospo del loro disappunto screditando stupidamente coloro cui non sono neppure degni di rivolgere parola o ammirazione. E Nino Cannella – lo sappiano per sempre - va rispettato al massimo livello!
Che qui troppi apaches tengano conto soltanto di voler tapinamente soddisfare la propria scarsa statura? Lo so da sempre! Quando prevedono perdente il rendimento del confronto col sottoscritto, quei guspinèros osteggiano ed evitano.
Dove andranno non so! Forse dove volano i loro scalpi pennuti…
Paradossalmente, la loro abituale mancanza di plastica mentale si deve al fatto che – anzi che cervello – hanno dentro il cranio un pezzo di plastica termoindurente, che più la squagli e più diventa dura: “casu marzu” che arde e brulica di negatività. Ed è questo che guasta l’aria e il risveglio del pueblo!
Specialisti del basso pettegolezzo, quando sciolgono saliva e bocca per sarcasmo, o quando fanno le loro magre concessioni e piccolette, respirano estraendo ossigeno non dall’evidenza, ma dall’indifferenza e dalla loro consueta pochezza operativa: secondo cimitero del paese dopo Viale Marconi. A Guspini, le forti mani di Sansone stringono solo sabbia e polvere; afferrano e stritolano soltanto polvere e sabbia. L’abituale “cultura” che qui si riconosce, e si ostenta, è un territorio non più vasto di un fazzoletto di terriccio legato a un bastone da spalla, nel quale si pretenderebbe di impiantare un proprio mondo identitario, mai posseduto se non per spicciola demagogia da mercatino ideologico di bassa memoria storica.
Svegliatevi dunque! Scidaisìndi scedàus…! Lu paese rovìna..; s’arrovìna…
E senza insistere una riga di più, vado a ricordarvi che Guspini – vi piaccia o no - è però anche la patria di Nino Cannella.., che non s’ha da fraintendere…né tentar stupidamente di sottovalutare, come vorrebbe fare Indianàpolis, al chiuso di tende da piazza e stamberghe tribali. Come artista e come scrittore, e soprattutto come uomo che sa condurre confronti comprovati da alta cultura umana, Nino Cannella può spuntare le loro penne molto più di quanto sappiano farsele crescere loro nei loro accampamenti… Ed è Lui che ha emarginato lu paese che “culturalmente” ha tutto quel che occorre per non servire a niente, se non all’appagamento dell’inerzia di quella patata “cotta a buddìu” e di quella casa mentale di cui ho già detto. C’è del resto chi sa molto bene che per qualità di suoi linguaggi e di cultura, per classe e per creatività, Nino Cannella è una “multinazionale” rispetto a questa butteghedda sepolta tutti i giorni da continuo fallimento sociologico. Le striminzite “intellighenzie di paese” - rispetto a Lui - non sono in grado di raggiungere neppure l’altezza del suo tacco, neanche se sollevano la cresta o le penne del loro nanismo. Sarà questo che dà fastidio a queste scialbe scamorze intellettuali?
Capirlo una volta per tutte sarebbe per loro un’ottima scuola di vita; ma se tutto quel che esorbita dal loro comprendonio è per loro inesistente, messo da parte e ostacolato, Nino Cannella il loro status glielo certifica per intero…con la sua azione e col suo sguardo attivo.
Se si ritengono tanto compiaciuti di stare appollaiati negli stagni dell’identità guspinèra cos’insòru, accampati e friggenti sotto crosta di casu marzu, non si ritengano diversi da come io li conosco, li vedo, e da come anche li fotografo, consegnandoli alla loro trista perennità.
Per quei trecento cialtroni che la popolano, e fan da capocarro a certe becere sociologie paesane, Guspini mi deve molte scuse. E per il resto…anche di più! Per quel che è stata la mia opera - per quel che è, e per quel che sarà – me le deve tutte. Tutte virgola cinque!
Regolatevi di conseguenza, voi e la vostra plastica termoindurita!
Carta e penna…Nino Cannella ne ha per tutti, anche se foste otto milioni!
Per quattro nanerottoli…poi…

P.S. Il testamento è rigorosamente valido per chi non ha capito bene quel che è scritto, né quel che ha letto, e ancor meno capisce quel che pensa o dice quando apre bocca, o – peggio – quando vanagloriosamente tace immeschinendo il suo silenzio (come fa qualcuno…di tanto in tanto). Pratica assai estesa, questa, e consuetudine storica nella “vecchia” Guspini attuale, che poi è quella avvolta nella carta del Testamento, redatto esclusivamente per i toppixèddus cui mi riferisco: guspinazzi & guspinèddus immortalati nel testo (1569 apaches in tutto).
Le giovani generazioni, e tutte le persone in buona fede (qui come altrove), sanno chi è Nino Cannella, e quali sono i territori privilegiati in cui opera da protagonista. Gli altri non mi serve che ne tengano conto. Mi infastidirebbe, anzi, che così fosse. I miei titoli umani me li scrosterò umilmente davanti alla signora Morte, non davanti a certo “paese” che pretende scalcinatamente d’avanzarmi i suoi: titoli e titolati che posso sempre “turràre” quando, dove, e come voglio. Soprattutto in agone dialettico, che so bene non essere il loro campo, coltivatori e cuochi di loro patate, o abitatori di scatole di fiammiferi che siano.

Nino Cannella

4 opere in b/n su carta

Cartella in edizione numerata e firmata dall'autore, contenente 4 opere su carta, in formato originario 33x48, tratte dal volume "100 Opere su Carta"
- Euro 25,00 - disponibile presso l'autore

4 Opere B/N su Carta di Nino Cannella

Rubrica L'Asterisco
Tra gli altri suoi scritti, nel 2005-2006 ha tenuto la rubrica L'Asterisco ne La Gazzetta del Medio Campidano

 

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