ARTE E COMUNICAZIONE
Terzonovecento di Nino Cannella
letto e osservato da Efisio Cadoni
Sfoglio il florilegio delle immagini che Nino Cannella ha raccolto nel suo catalogo da lui ordinato e disposto secondo la cronologica produzione dei suoi dipinti scelti tra quelli dal 1968 fino al 2000, anno d'inizio del nuovo millennio e del suo (e del nostro) "terzo novecento", categoria dello spirito che dà il titolo al volume (ninocannella - terzonovecento - OPERE 1968/2000 - Sainas 2003). E penso a lui, nella sua triplice veste di parlatore, di scrittore, di pittore. Se penso a Nino Cannella, critico e autore della parola scritta, non posso che elogiarne le qualità di distinzione e d'efficacia espressiva; e se penso a lui come artista e parlatore d'arte confesso d'esser totalmente affascinato dalla fluidità della sua loquela che non è soltanto eloquente loquacità, ma anche capacità introspettiva e rara facoltà di recepire ogni intimo aspetto dell'arte, attraverso il suo argomentare sull'arte degli artisti a lui cari e sulla sua in particolare, standosene fuori, appositamente estraniandosene, nella sua introiezione: l'arte gli resta dentro, lo informa, diventa suo nutrimento e lui la trasforma, accogliendola in sé, ma con quel distacco sommo proprio del gran regista e quando ne parla e quando ne scrive e quando, direttamente, opera sulla tela. Anzi è fondamentale, anche nell'espressione del colore, del segno, nella sua pittura, ogni altra pittura che la sustanzia e, in essa, lui sembra voler continuare il proprio percorso oratorio; in essa cioè sembra confluire il percorso della parola detta, con una densità, con una forza, con una solidità, come intuisce Paolo Sirena, "perfino" maggiori. Egli forse vuol confessare coram populo questa sua capacità di muoversi e osservarsi dall'esterno, quando s'accomiata da noi lettori - visitatori, nell'addio al XX secolo della sua "introduzione" al volume, e preme il dito sul tasto della sua cinquantennale ricorrenza di un"esatta metà vissuta" nel mondo e nell'arte del mondo, allorché c'informa che la sua "antologia pittorica" è "circa un decimo" della sua produzione fino a quel momento, "sistemata come immagine di un excursus cronologicamente completo". Ciò significa che Nino Cannella, tra i "ritratti", le "figurazioni", i "racconti", gli "studi", i "disegni", dove è dentro con tutta la sua anima o, meglio, con tutta la carica multanime del suo esser artista, in realtà un poco vi sosta accanto, ma ne passa oltre. Vi circola circospetto. Vi corre intorno. Il suo parlare d'arte, scrivere d'arte, far arte, che in lui sono un'unica espressione, sono uno scaturire dalla propria arte, un'osservarla scorrendone fuori, come ben rivela, in una sua "excursio", in una sua scorreria, in un suo viaggio del piacere dell'arte, una gita della gioia intellettuale che è durata cinquant'anni. Il periodo della sua vita è pari alla sua età artistica. Il suo tempo umano corrisponde al suo tempo dell'arte che supera in questo millennio, come propaggine del secondo, la soglia del suo - nostro "terzo" novecento. Artfex nascitur. Il suo guardarsi dal di fuori è appunto una "digressione", un temporaneo allontanarsi dalla passione, dalle interiori pulsioni dell'arte, una sorta di desiderio, di tentativo di messa a fuoco d'un lungo periodo d'arte. Per poi tuffarcisi dentro di nuovo, standone fuori ancora una volta, in un approfondimento del proprio moto di creatività attraverso la conoscenza di sé, della propria natura: un élan d'autocoscienza ch'egli definisce "fisiologia dello spirito". E' importante per Nino Cannella pittore la non-pausa dell'arte, il movimento dell'arte anche quand'essa apparentemente s'interrompe nella riflessione. Anzi è indispensàbile la sua continuità nella vita dell'artista, nonostante la sua naturale brevità, e oltre la vita dell'artista, poiché l'arte appartiene a quel misterioso mondo dei suoi citati ossimorici "effimeri perpetui", di quegli uomini, di quelle intuizioni che vanno sempre avanti, che non si fermano mai, che sono eterni nella loro transitoria vita, nel loro giorno che inesorabilmente, attimo dopo attimo, tende al tramonto. Nino Cannella ci ha voluto presentare, con le immagini dei suoi dipinti, una faccia della "bellezza", ci ha voluto comunicare la sua idea di bellezza. Che cos'altro dovrebbe comunicare l'arte se non la bellezza? E poi non so chi possa sostenere o aver sostenuto, come verità assiomatica, che l'arte è comunicazione, trasmissione di contenuti, ma so per certo ch'essa comunica la bellezza, anche quando direttamente, nella sua apparente superficiale formalità, sembra non comunicare o anche quando, per il tramite dei suoi tramiti critici, non riesce o non deve affatto comunicare, in virtù dell'ineffabile intrinsecità della sua natura imperscrutabile che è ordine e compostezza, ma anche il loro contrario, disordine e confusione, casuali o voluti. Non bisognerebbe mai credere totalmente alle parole "indirette" degli artisti, cioè a quelle che non fan parte della loro arte specifica, a quelle che esigono spiegare i contenuti della loro opera. Non crediamoci mai. Le opere dell'arte significano, quando siano tali, soltanto bellezza. L'arte si apprende soltanto con i sensi, appartiene all'universo dell'estetica, è direttamente rivolta ai sensi, a ciò che noi sentiamo e non a ciò cui noi rivolgiamo il pensiero. Non ascoltiamo Nino Cannella. Ma Nino Cannella non tace. Ma soprattutto non tacciono le sue opere. E la sua bellezza può essere un "paesaggio notturno" o uno "studio per un paesaggio" in cui aleggiano anime tormentate oppure "il vaso di cristallo" che sembra trasmutarsi attraverso una sua metamorfosi che contorce e deforma, come, nei sogni di Alfred Kubin, il suo "paesaggio" la sua "nascita della perla". In Cannella sembrano confluire tutti gli spettri, i fantasmi, le anime penitenti dell'espressionismo della Germania e dell'Austria dei primi del Novecento. In lui riscopro la drammaticità di Emil Hansen - Nolde, le fantasie esasperate, le allucinazioni di Christian Rohlfs e, in particolare, le visioni di Arnold Schonberg, quelle che, secondo Kandinskij, ci condùcono alla "bocca dell'anima", quando le guardiamo "con l'occhio interiore". Se fosse possibile collocarlo in un'area ben delimitata dell'arte, dovrei pensare a un Nino Cannella espressionista tachiste per il suo rapporto sentimentale con le sue "cose", alla Jean Fautrier; e per il suo rapporto intellettuale con la sua materia, alla Jean Dubuffet. E leggiamo, ascoltiamo, guardiamo le sue opere. Ma no. Ma non ascoltiamo nessuno. Non leggiamo, non ascoltiamo lui, quando scrive o parla di sé. Sentiamo le sue òpere. L'arte non significa nulla. L'arte non comunica nulla. E' il sentimento dei sensi. Guardiamo, tocchiamo, ascoltiamo, odoriamo, assaporiamo le opere. E, forse, anche le opere di Nino Cannella, non significano altro se non la sua bellezza. C 'è dunque una ragione anche nella non-significanza. E il non-senso non è soltanto colore o forma o segno o suono o odore o sapore. E' tutto quello che noi, con gli occhi, con gli orecchi, con le mani, con il naso, con il palato vogliamo e sappiamo sentire e, con il nostro sesto senso, vogliamo e sappiamo trasferire nel nostro spirito.
Villacidro, 29 gennaio 2005
La Pittura come Respiro
di Alessandra Menesini
"Rombo di Passioni" nelle opere e nelle parole di Nino Cannella, che
questo pomeriggio alle ore 18,30 presenterà una sua monografia
alla Biblioteca comunale di Guspini. Terzonovecento è il
titolo del catalogo che sarà illustrato da Paolo Sirena - promotore
nel 2003 di una grande mostra di Cannella al Museo de Sa Corona Arrubia
- e dal critico d'arte Andrea Delle Case.
Opere, recita la didascalia, dal 1968 al 2000, ovvero un accurata antologia
di più di trent'anni di pittura silenziosa e costante.
Si inizia, subito a ridosso della copertina, con un autoritratto di Nino
Cannella, il primo di molti che tornano sulla pagine di questo volume
i cui testi sono stati scritti dallo stesso pittore, in polemica, non
tanto velata, con la critica disattenta. Oli su tela, acquerelli, pastelli,
acrilici, in quadri in cui prevalgono i volti femminili, talvolta attraversati
da un segno sinuoso, come di filo cucito, che rappezza anche un vaso di
cristallo. Nella "nuova figurazione" di Nino Cannella corre
un omaggio dichiarato e continuo ai pennelli di Matisse e Picasso, ma
è la sua personalità ad emergere dai paesaggi appena accennati
di case e di campi, dalle sagome appanate da tinte pacate che rifuggono
i forti contrasti cromatici. Anche il mare ha il colore della terra, ocra
rosati con un cargo fumigante sul bordo alto della tela. Ci sono dei viola
luminosi, gli azzurri oltremare, il giallo zafferano, un verde appena
livido, bianchi gessosi e aranci meditterranei.
Danno corpo a presenze concomitanti di sagome che tendono a fondersi assieme,
si trasformano in forti tratti neri che sbarrano i visi, o nel teschio
d'Amleto nel mezzo della composizione. Stesure pastose trattengono figure
altrimenti evanescenti, quasi dissolte e tenute ancorate alla realtà
da simboli anche duri, come la svastica, o ironici, come un tubetto di
colore spremuto. Citazioni colte di un artista che è assiduo frequentatore
di musei e di libri. Traspaiono, ma velati, il sommo Dante e Rembrandt,
l'eroe Ettore e il cantore Virgilio e Sharazade d'oriente e Rigoletto
tragico buffone. Quasi sempre isolati, i soggetti di un autore che negli
anni Settanta fece la scelta controcorrente di un figurativismo che non
fu comunque mai di maniera.
Il catalogo Terzonovecento segue un andamento cronologico che evidenzia
l'unità di stile ma anche le curiosità del mezzo pittorico
di un artista che si proclama un solitario. Nino Cannella dichiara, vibrante
e austero, che per lui la pittura è vita e respiro. Ha profonda
conoscenza delle tecniche pittoriche e altrettanta padronanza di un mestiere
che, pur nell'appartata Guspini, non gli ha impedito idealmente il confronto
coi contemporanei. Rivendica del resto, una "unità etica"
che non contrasta con la varietà tematica delle sue opere nè
con le angolazioni della sua ricerca.
Cento
Opere Su Carta (Nuove figurazioni del volto umano 1974/2003) a cura
di Paolo Sirena e Flaminia Fanari;
di Efisio Cadoni
Nino Cannella ha duplice sostanza d'artista visionario, che conosciamo
da sempre, e insieme d'artista accecato dalla divinità, come Tiresia alla
fonte d'Ippocrene, per aver voluto andar oltre il lecito della pupilla,
per aver desiderato contemplare lei, l'incontemplabile, nelle acque scorrenti
della sua nudità di dea del pensiero e dell'immaginazione, la moderna
Atena. Anzi nella sua doppia essenza d'artista s'identifica, dentro il
mito, nella diva Pallade che sa ammirare, la quale, alla buia realtà della
sua rifiutata immagine nello specchio d'acqua, preferisce la luminosa
invenzione di una sua superiore bellezza dentro la propria mente. E Nino
Cannella, alla fonte della bellezza, ribalta la fantastica narrazione
di Narciso, non perché rifugga da una personale autoammirazione (impressione
che, chiunque sfogli le pagine di "Nuove figurazioni del volto umano",
può cogliere, attraverso le belle fotografíe di Matteo Puggioni che preludono,
concludono e incorniciano la lussuosa pubblicazione delle "100 opere su
carta" da me, meno propriamente, definite "disegni"), ma perché, appunto,
la sua dea preferita, deposto l'aulos, quel suo musicale piacere del pennello,
ch'egli sonava nelle sue tante "figurazioni" pittoriche, si abbandona
alle sue visioni, alle sue "citazioni colte", messe abilmente a fuoco
da Flaminia Fanari e da Paolo Sirena, del desiderio e della memoria. Ma
quante sono le immagini del desiderio e della memoria? La prima del libro,
trascurata la doppia risguardia con una sua istantanea a tutta pagina
che vela un'eccezionale posa da fotomodello, riproduce-inventa-ricorda
un volto di Leonardo, con sanguigna, ma già nel titolo, "Disegno di Leonardo",
l'artista pare propendere a voler significare una sorta d'intellettuale
accoglienza "di colui che fece dell'invenzione la sua compagna di vita",
come scrivono gli autori, nel proprio intimo, o meglio, una sua compenetrazione
spirituale che si avvera nella criptica firma (Leonardo) accompagnante
la propria.
E, da questo, ai volti che sono le rappresentazioni dell'intero corpo
d'Atena fissato in un baleno prima dell'assoluto buio, del nudo che gli
autori dicono "dalla posa seducente e sensuale, capace di dialogare con
i tratti sommari della sua intimità, con quel disegno del pube reso come
la 'V' dell'alfabeto…", c'è tutto un trentennale percorrere quell'arte
del pensiero nell'essenzialità del volto umano fatto di linee, di tracce,
di colore, di segni, di contorni abbinati, di macchie, ma soprattutto
di ombre, quelle ombre che nella vita ci seguono sempre, di nomi, dall'androgino
allo sconosciuto, a Casanova e a tutti quelli che appartengono al suo
mondo e che sembrano infiniti, a Bacon, a Matisse, a Kyonaga e a quella
sua modella vergine che solo Zeus partorí, nel suo sogno ermafrodito;
c'è tutto il vivere artistico di Cannella visionario e divinamente accecato
che sembra scomparire nella profondità della sua immaginazione, come in
quel grigio universo di fumo della sua memoria col quale il libro si chiude.
Ritratti di Vita senza Posa - di Roberto Mura
Nei viaggi metaforici di Nino Cannella la ricerca del volto - di Maria Dolores Picciau
Nino Cannella racconta la potenza dell'uomo - di Antonio Pintori (L'Unione Sarda - Apr. 2003)
Guspini
- Villacidro - Villanovaforru
Eterne Madri di Nino Cannella
Articolo su (Il Provinciale)
Le "Eterne Madri": Nino Cannella in Mostra
A.
Mocci (Il Campidano)
Proroga della Mostra "Eterne Madri" di Nino Cannella
Sabrina Pusceddu (La
Gazzetta del Medio Campidano)
Recital "Eterne Madri"
Sandro Renato
Garau (La Gazzetta del Medio Campidano)
Intervista con Efisio Cadoni
in forma di lettera
Gúspini, 23 agosto del 2006.
Caro Nino Cannella,
vengo da te, a Gúspini, nella tua Gúspini che, catullianamente,
odi e ami come una donna. E i Carmina del tuo cuore e della tua mente
sono i tuoi “asterischi”. E tu continui a dirmi: Odi et amo,
quare id faciam fortasse requiris. E tu stesso rispondi: Nescio, sed fieri
sentio et excrucior. Odio e amo e tu forse domandi perché. Io non
lo so, ma so che è cosí.
Questo mi dici, Nino, e mi riveli, credo, un tuo grande non corrisposto
amore. Ma tu, forse, una segreta risposta ce l’hai proprio nei tuoi
Asterischi. Forse è lí la spiegazione di tutto l’odio
e di tutto l’amore ivi confessato. La risposta è già
nei tuoi artícoli che da anni púbblichi nella Gazzetta del
Medio Campidano e che tu hai raccolto per un libro che ha già un
suo títolo che a me non piace, “Editoriali da una provincia
lontana”. La tua è la nostra provincia. Se pure, come tu
scrivi, è “lontana” e, forse, irraggiungibile, nell’idea
di giustizia e di cultura, ciò nonostante è una provincia
d’Italia in cui pensi e parli e dipingi e lavori e scrivi. E va
bene cosí, come tu la senti e la vedi, nella sua “lontananza”.
Ma perché “editoriali”? Ciò che tu scrivi, i
messaggi che tu estrínsechi e diffondi per noi e, soprattutto ai
tuoi “concittadini” guspinesi destini, non appartèngono
a quel convulso mondo dell’editoría; è tutto tuo,
solamente personalissimamente tuo, il mondo di luci, d’irradiazioni,
di costellazioni che dalla lontana provincia c’invíi. E dunque,
per me, “Asterischi”, con i tuoi inesorati asterischi e tutti
i loro richiami e tutti i loro rimandi e tutte le loro chiose, i loro
gràppoli abbaglianti, commenti di folgoranti note, è un
títolo perfetto. E la scelta non è certo mia. E’ già
tua. E cosí conosco, conosciamo, sotto questo títolo e,
da un bel pezzo, sotto il tuo volto incappellato, tutti i tuoi scritti
giornalístici, i tuoi “asterischi” appunto.
Non scalpitare. Avrai tutto il tempo per rispòndere.
Quest’osservazione non è, non è ancora, una domanda.
Vengo da te, a Gúspini.
Quíndici chilòmetri di curve e mi trovo, in breve tempo,
da Villacidro, in questo paese i cui monti guardo da lontano; ma non lo
vedo affatto finché non giungo alle sue prime case.
Quelli che vi arrívano dalla pianura del Campidano, da San Gavino
Monreale, lo scòrgono súbito, nel monte, sotto la punta
di Cúcuru Zèppara. E’ il paese del monte. Anzi, per
sua stessa definizione, è la “cúspide” di un
monte. E io sto bene tra questi monti, che monti non sono, ma teoríe
di colline digradanti a semicerchio verso sud e sud-est. Io che vengo
da altri monti e che perciò ho dimestichezza con le strade, i sentieri
e con gli abitanti dei monti, mi ci trovo bene.
Caro Nino, vengo nel tuo monte, nel tuo Gúspini o, perché
no? nella tua Gúspini (femminile, come tu preferisci), per incontrarti,
per parlare con te. E anche se in questi últimi tempi, da qualche
mese, il mio umore non è dei migliori, come si dice, voglio scrívere
ancora una volta di te. Innanzitutto perché ogni promessa è
dèbito (per me, questo, è un principio di vitale importanza)
e inoltre, ma non secondariamente, perché m’incu-riosisce
il tuo sprezzante inchiostro. Mi incuriosisce e mi affàsci-na a
tal punto da sentírmene legato, aggrovigliato, da accòrgermi
però d’esser indotto a starne fuori, per evitarlo. Ma anche
a tal punto che m’indignerei con me stesso, se lo evitassi.
In questa sorta di accolta sopraffazione, per nome di un’ irrinun-ciàbile
verità e di una sentita amicizia, stàndone líbero
prigione, una misteriosa forza illuminante mi ci trattiene fino in fondo,
dentro, nei flutti del tuo linguaggio, dei tuoi goduti anacoluti, delle
tue forzature grammaticali e intellettuali, delle tue invettive, della
tua “lírica” ironía che, talvolta, diviene aspro
sarcasmo.
E credo che, in definitiva, sia questa la giusta chiave di lettura: ironía
e sarcasmo. Essi sono l’humus sotterràneo e anche il cemento
di tutta la tua costruzione stellare. Dalla profondità di questa
tua terra al tuo cosmo. E al nostro.
Caro artista d’intriganti dipinti, discorritore di buona e ben istruita
voce, appassionato cultore di cose letterarie e filosòfiche, facondíssimo
argomentatore intorno al paese che odi e ami, vengo a trovarti, per ricambiarti
la vísita oggi, qui, davanti a due freschi bicchieri di dorato
Semidano di Mògoro, rovinato dal suo stesso nome, anastasía,
che esprime proprio il contrario di ciò che vorrebbe dire, ma ciò
nonostante eccellente nel suo profumo lieve e nel suo sapore d’amarògnola
vena tra il nasco, il vermen-tino e la malvasía. Vino dal buon
tono, in sé, ma dal tono sba-gliato, nell’apparenza. Ecco
l’importanza dell’accento.
Un píccolo segno che trasforma in rovina e morte ciò che
è rinàscita e resurrezione. Il segno per cui l’apparenza
ha fondamentale importanza, in cui l’apparenza è l’interiorità,
in cui l’íntimo s’identífica con l’estremo.
Per questo siamo convinti che la diàtriba, come quella che, magistralmente,
ogni tanto, adorni di fioriti pensieri, non è una diatriba e che
non è alchimía l’alchimia che preparo per superare
le difficoltà, spesso prodotte da ladri analfabeti e alfabetizzati,
con le quotidiane magíe di colori, di pietre e di parole, ma senza
l’oro per cui nacque. Eccoci con la nostra “anastasia”
dunque e con una birra all’whisky.
Eccoci dunque insieme nella tua veranda che sa d’antiche logge pènsili,
sporgenti e distese sui giardini della infinita fantasía di Shaharazàd,
mentre mi racconti di un antico amore parigino per il quale tu, oggi,
sei quel che sei, nel tuo pensiero sulle donne, ed io sono un visir con
la testa mozzata, davanti a te, re Shahriyàr di Mille e una notte.
E io già sogno con gli occhi tesi a rimirar un immenso scenario
mediterràneo “alle porte dei balconi aperte ai profumi di
menta” della Signora delle Vigne di Ritsos, davanti a cui s’allàcciano
e s’aggrovígliano tutte le storie e le leggende di questa
nostra terra di Sardegna, come un’ísola greca, ma con i suoi
miti autòctoni, sí, caro Nino, Signore di questo tuo eletto
“verone” donde anche tu tutto miri e rimiri e fingi nel pensiero
con lo sguardo sospeso su quella tua siepe di monte, spinto oltre la siepe,
segreto abitatore di questa tua “separante” sattiana veranda
in cui, con un lieve venticello, come in uno spirituale sanatorio, sentiamo
addosso la dolce condanna di raccontarci vicendevolmente le cose della
vita, nell’onda di un freschíssimo bicchiere, chiusi in un
ormai tetro guscio serale, nella convinzione che, forse, la libertà
e lo spazio síano soltanto lí, nel pensiero.
E tu ancora parli e ti ascolto, egregio causeur, piacévole favellatore
di tutte le debolezze di Gúspini, dietro e davanti alla tua “montagna
incantata”, der zauberberg, in cui aleggia lo spírito di
Thomas Mann di cui non ti sfugge neppure un doktor Faustus occulto òspite
di un tuo íntimo libro segreto di mille e mille pàgine su
un pretèrito e pur sempre vivificato istante di vita e di pensiero,
che ha però già molte sue pàgine “segretamente”
stampate in un único esemplare. Aleggia fino a noi e porta alla
mia mente, con le vecchie pàgine del “Tutto Quotidiano”
degli anni Settanta del sècolo scorso, il críptico suono
di un nome, Tommaso Grande, il cui San Sisinnio, illustre sconosciuto
nel paese delle streghe, è nemico di tutti i diàvoli, di
tutte le sue versiere e di tutte le sue concubine. E nella mia fantasía
s’affàcciano, come fantasmi, le creature di Marlowe, Tamerlano
malato d’onnipotenza, Barabas assetato di ricchezze e ancora un
doctor Faustus che fugge via dal concreto per poterlo dominare e sopraffare
dall’alto o vi s’immerge per possederlo e farlo implò-dere.
E tra un ossimòrico sorso d’anastasia-anastasía e
un anastàltico sorso di birra all’whisky, nella bocca del
mio stòmaco affluísco-no e s’affòltano líquidi
nomi dai sensi duri e oscuri, toccate, fughe e arpeggi di dèmoni
e demòni, Ecate e Core, Lilith ed Eva, maghe e coghe, Moloc e Satanasso,
in una lúcida pazzía per cui, da un romàntico lied
d’umor goethiano a un’aristocràtica ouverture di Richard
Wagner, lentamente planiamo e atterriamo giú dai pensieri; e di
nuovo ci troviamo sulla terrazza che incombe sul “borgo selvaggio”
dove Mefistòfele e Faust son messi alle porte da una sospettosa
Margherita.
E con il tempo con cui trascórrono ricordi buoni e cattivi, quelli
che nella memoria delíziano e castígano la nostra mente
e, nella nostra mente, le nostre coscienze, scandisci piedi d’endecasíllabi
di Giulio Fanari:
Cando penso a sos males de sa vida
e a sos benes chi medas gosamus,
dae su modu chi totus lottamus
mi naschet dubbiosa sa partida:
ca Ben’e Male formant sa ferida
incurabile, triste dolorante…
e nde restat, ritene, titubante
sa pratica comente sa dottrina…
Dirò ciò che penso, Nino, avendo davanti a me, sotto i miei
occhi, i tuoi Asterischi, considerando sia quello che scrivi, sia quello
che ora mi hai appena detto, sia quello di cui normalmente parliamo. Mi
spiego meglio: dirò ciò che penso, convinto d’èssere
in una giusta línea interpretativa del tuo pensiero, ponendo in
risalto la tua volontaria contraddizione: da una parte l’aperto
dileggiamento, dall’altra il taciuto amore e l’inconfessata
certezza che, in realtà, non tutto è negativo, anzi che
è negativo solo ciò che non corrisponde alla tua idea, al
tuo desiderio di perfettibilità. E per me e per ogni lettore attento
è chiara una verità che, nascosta tra le righe dei tuoi
scritti, è invece lapalissiana nelle tue parole dette: il sotterràneo
scórrere di vene di cultura e di sapienza (sembrerebbe tautològico,
ma la sapienza non sempre corrisponde alla cultura) che scopri nella tua
terra, declamàndomi la strofa di una poesía del Fanari,
tuo nonno materno, di cui tu stesso hai recuperato i versi (Opere ritrovate
di Giulio Fanari).
E’ verità evidente (molto meno evidente per te, talvolta,
e in contrasto con la tua idea di perfezione), infatti, se pensiamo a
tuttii quei lavori che èntrano nel vivo dello spírito guspinese,
a quegl’interessi che partoríscono un grande spaccato di
Gúspini, a quelli che s’appúrano nell’introspezione
intellettuale dentro il mondo umano, sociale, lavorativo delle miniere,
espressi in perspicuità di ricordi, concetti, racconti, notizie;
verità evidente il tuo pensiero d’amore per Gúspini,
e nel silenzio di tutti quelli che, forse, nel paese, con l’operosità
e con il lavoro, fanno egualmente cultura. Per tutti dunque occorre mantenere
meno pregiudizio e acquistare maggior giudizio.
E, dicendo ciò che penso, mi pare di dire anche una píccola
parte di ciò che tu pensi e non scrivi o, piú precisamente,
non hai ancora scritto. Questa è la base di roccia dei tuoi “asterischi”,
delle tue scintille siderali. E, dunque, ritorno ai tuoi “asterischi”.
Parte proprio dal títolo, quindi, la mia única domanda:
Sono davvero tali (asterischi) i tuoi scritti oppure il tuo è un
falso títolo che presuppone o preannuncia altri asterischi non
scritti o da scrívere che spiègano o spiegheranno questi,
posto che tu stesso continui a chiamarli anche “editoriali”,
definèndoli cioè con un tèrmine improprio? Aspettiamo
altre note chiarifi-catrici o è già tutto chiaro nel solco
dell’ironía?
E’ il tuo momento.
E la tua risposta è questa:
“Ho dedicato i miei Asterischi “in progress” ad una
fantomatica Gulsuae: antico nome del paesello che mi riguarda; e –
per quanto da te esteso tra umor di monti, anastasìe, “diatrìbe”
e chimiche della parola - l’odi et amo che la tua lettera mi attribuisce
è (per me) solo il braccio vivo di una battaglia vincente. Perché
no? Più che nel senso di Catullo, e del suo latino excrucior, parlo
e ti rispondo a titolo squisitamente locale, ma non dimenticare quanto
io mi conceda ad altre bat-taglie, e non per questo piccolo sole di una
piccola Austerlitz.
Si dice spesso che “tutto il mondo è paese”; ma, se
frulliamo questo frammento di filosofia popolare, non potremo mancare
di raddrizzare il bersaglio e rovesciare la frase - come del resto fanno
i filosofi apocalittici - e scrivere che “se tutto il mondo è
paese, tutto il paese è il mondo”.
Si tratta quindi di vederlo, il ”paese fatto mondo”, nei suoi
schemi cosmologici minimali, e trattarlo di conseguenza.
E dato che a me è capitata questa specie di paese, anche se il
mondo che mi vivo e che realizzo è un’altra cosa (anzi..,
una cosa totalmente diversa, che – però - ha a che fare col
qui) ho deciso di produrre un’analisi delle cose del qui con un
certo tipo di penna. Ovviamente, un’analisi scherzosamente dura:
ironica e sarcastica - se vuoi - ma disegnata con contorni realistici.
E una scrittura voluta; così come “voluti” sono i flutti
e i flussi del mio linguaggio, e i miei goduti anacoluti.
Se qui avessero saputo leggere con serenità e curiosità
con- seguente, mi sarei limitato a tre o quattro pezzi d’altro registro,
ma sigumenti innòi teint’e nài tott’e tottusu,
qualsiasi cosa vedano o sentano, mi sono reso disponibile ad aggiornare
la situazione con una penna che sappia limitare i vari mentecatti in servizio
permanente effettivo…
Che non sono pochi. Mi riferisco ovviamente a quelle persone imbalsamate
entro quella subcultura indisponibile e refrattaria a qualsiasi azione
critica che non sia lo sparlare addosso agli altri… per gonfiare
sé stessi del gas di cui son fatti. Quelle stesse persone che –
pur tentandoci - hanno paura di non poter essere loro a primeggiare, e
di dover mordere il freno davanti ai con-fronti. Sentimento, questo, stratificatissimo
in quasi tutto il cervellame locale.
Qui ci si frequenta e ci si tollera per contratto silenzioso solo se ognuno
pensa ka mellus’e s’atru è sempri cuss’e tottu.
Ed è proprio in conseguenza a questo loro pensierucolo privato
che ritengo di poter rispondere con una voce molto più potente,
e - se permetti - anche più ricca di fatti.
Ma lasciamo la veranda, e l’onda delle gustose tue citazioni, e
andiamo in auto.
Sali sulla mia Bentley..! Uso quella, quando vado in giro per Asterischi.
E per i lettori che non sanno cos’è una Bentley, li aiuto
io. È una grande auto di rappresentanza.., come una Rolls Royce,
e forse meglio. Ma - diversamente da questa - la Bentley non richiede
autista. La guida il proprietario, perché “deve” farlo
lui (il sottoscritto, naturalmente). È corsaiola quanto una Ferrari,
ma è più salottiera, più soft; e per tanti lettori
d’Asterischi che si muovono abitualmente sul carro a buoi di un
intelletto carico di balle di paglia, con un tremolante lanternino sotto
il giogo, e una candela in mano (e senza marce) non è opportuno
frullargli sotto il fondoschiena i circuiti (dialettici e sociologici
s’intende) della Formula Uno (pardon: Formula Cannella).
Andremo piano - perché c’è troppa gente ai bordi della
strada (…ka ncè ffèsta; poìta ka innòi
bèssinti scèti si ddoi èi sa vvèsta. Is attrus
funt’ a mmmari…) e qualche curva doppia. Come sempre dovrò
sorpassare qualche intemperante in corsa cam-pestre. C’è
il Trofeo Kimin-Cipòn-Giudèu, e i suoi poveri iscritti.
Qualcuno, se non saprà farsi da parte, troverà i suoi pantaloncini
stirati dai miei pneumatici per guida veloce…
Andremo piano, dicevo, a raccontare – con un certo stile di guida
- la storia di un paesaggio umano che le mappe più aggiornate segnalano
appena: paese che per troppi aspetti non è altro (perché
non ha saputo essere altro) che ua bidd’e biddùncusu.
Va da sé che per raccontare questo ci vuole molto poco: un punta-tacco.
La brava gente (e qui ce n’è tanta) che passeggia per i cavoli
suoi, non c’entra con i miei riferimenti; i punta-tacco sono riservati
a quelle scalcinate scimpanzighentzie locali che questo paese ha allattato:
grandusu intellletttualllis’e bidda (ahiloro!), e tanti vari politicallony
correct. Gente che in quel “concreto” relativo a me ha solo
sangia e zarra, e che all’inter-pretazione o alla cultura di sé
stesso, e degli altri, sa offrire molto spesso solo minchiate paesanotte,
o cincischiate da bar. Insomma..: padri e figli di un ambientino culturalmente
meschino, e sempre derivato da sé stesso.
La moneta che si batte abitualmente in quelle teste… è quella
polverosa presunzione spicciola e gratuita che gira e si rigira troppo
spesso tra l’affermazione del niente e del nient’altro. In
questo senso – tra la fossa di Candebazzu e la palude bitumàta
che la specchia – c’è proprio niente di veramente colto
che possa interessarmi. E per quegli elenchi che tu fai entrare nel vivo
dello spirito guspinese, voglio ricordarti che senza il vissuto specifico
di questa Gulsuae, e che sia quotidianamente com-provato, non è
dato stabilire alcun giudizio su scorrenti e sotterranee vene di sapienza
locale. E questo è detto con le spalle (larghe) della mia cultura.
O c’è qualcuno cui sfugge il concetto?
Introspezioni intellettual-locali, aforismi (aforismi!?) e memoriame altrettanto
locale (e di non so quanta scrittura) li ho già definiti - al di
là e al di qua di nomi e di cognomi che non s’han da fare
per questioni di buon gusto - quando e dove era il caso. Imparassero gli
altri a saper definire (e a saper vivere) altra cultura emersa, storicamente
ed eticamente operativa.
E per documenti storici dell’identitario locale non si intendano
scritture di cazzùme per poveri di spirito, nè si racconti
(e anche peggio si scriva) nel più penoso risorgimento dell’analfabetismo
fabulatorio.
Né c’è tutto quel rispettabile silenzio che tu dici,
Efisio, nell’operosità di Gulsuae.
L’unica cultura aperta e razzolante, aperta e razzolante nel senso
del pollaio nel cortile, è la sub-cultura del negativizzare a oltranza.
Questi sono i tipi medi gulsuaetàni! Questi…gli aperti sotterranei!
Beccano e si sbeccano in assenza del guerriero. Quando ne intravedono
la spada, il fil di spada, funti tottus cuàusu… tra assenza
e indifferenza (nell’accezione cialtronesca dei termini, e nel miglior
opportunismo conseguente alla loro mancanza di voce frontale).
L’ho già scritto: Ka no nde ddis frigad u K… sembra
essere l’unico loro battito cardiaco. Del resto, qualsiasi persona
di paese sentissimo in proposito a quest’ultimo argomento con la
Kappa, risponderebbe con la stessa frase condivisa; e tra i miei lettori
c’è qualcuno che ha ben capito, e apprezza, il mio discorso.
E sa di poterlo riconoscere vero. Anzi.., a capire che i miei Asterischi
specchiano questo lato del paese – senza alcun letterario “odi
et amo”- non sono pochi. La stessa cosa è detta per i neologismi.
Simpatici e significanti.., e condivisi. Non trovi?
Un'altra cosa: non conosco - perché non devo - l’interiorità
dei guspinesi. Quella che eventualmente possiedono, e che dipenderà
dagli eventuali tipi umani, non l’ho mai vista apparire. Quel che
ho visto (e sentito) è stata sempre e solo un’esteriorità
da “tògusu”, e da popolo di piazza chiusa. Parlo (ovviamente)
degli iscritti a quel trofeo.
Una buona ignoranza (una sancta simplicitas ben presa e ben gestita) è
un dato piacevole del viversi comunitario di un piccolo paese, ma innòi
ge faid a ddus tèni! Il più idiota si crede un genio. Su
prus mammalluccu si incolla addosso tutte le medaglie del Trofeo.., e
non mancano quelli che si inventano e ci credono, e per tali si manifestano…
Per questo, non sapendo gonfiarsi, né parteciparsi, con stru-menti
a loro possibili - parlo ancora degli iscritti a quel trofeo - sminuiscono
e ridicolizzano il tutto dei tutti, e questo è l’unico modo
(congenito) di realizzare sé stessi (o la squallida barzel-letta
di sé stessi che molti altro non sono). Se manca un carico reale
di cultura umana, non c’è senso o spazio neanche per le spade.
Qui sembra tutto ventre: l’Idra dai due ventri..; per ognuno che
colpisci e sgonfi, due se ne rinsaccano di stesso fiato asfittico - e
tu, Efisio, sai bene che” ne Hercules quidem contra duos”.
Neanche Ercole può, contro due!
Le scimpanzighentzie, dunque, non finíscono mai, caro Cannella.
Ma per te, come d’altronde per Ercole, la lotta non è impossíbile.
Continua pure con la tua citazione, poiché “ne Hercules quidem…-
affermàvano gli antichi, ma - …ille unus vincebat omnes”,
lui da solo vinceva contro tutti... E poi, è pur sempre una tua
scelta… E tu ami far tuo il leopardiano “combatterò,
procomberò sol io”, convinto però, sotto-sotto, che
i tuoi mostriciàttoli, prima o poi, avranno una fine.
A propòsito dei tuoi neologismi… Sono i gioielletti privatís-simi…Fanno
parte del tuo linguaggio.. Saranno accolti, conser-vati? Sono le tue creaturine,
i tuoi figlioletti…Potranno anche aver la fortuna d’esser
adottati?... Se non si troverà di meglio, perché qualcuno
non dovrebbe utilizzarli? Ci sarà pure qualche desocupado lector…”
E mi vèngono a mente I sòliti ignoti, in “corazzattera”,
e mi sento il sorriso tra le labbra; e Piazza XX Settembre e i tuoi rimbrotti
ai responsàbili degli arredi urbanístico-architettònici
e mi resta il sorriso a fior di labbra, nell’interruzione e nel
tuo rimandare l’argomento alla rubrica del número successivo;
e i giuochi etimològici a discàpito degli Egregi Eletti!
e il mio sorriso è agli àngoli della bocca; e il tuo trionfalismo,
il tuo scoperto élan di superiorità e i veri e pròpri
insulti contro un dirompente analfabetismo, con la finzione della tua
pàgina “scrittoria” (e che cosa c’è di
piú “finto” di una proposizione enunciativa irònica
chiusa nello stesso títolo?) di Saper lèggere e saper scrívere,
e il mio sorriso è a bocca piena; e il mio sorriso è tra
i denti mentre gli occhi sfògliano pètali di fuoco da un’Antología
di Terramestus; e mi si ferma tra le mascelle, tra incisivi e molari,
giallo e allibito, come il sorriso straziato della pècora dipinta
da Antonio Amore o come quello della capra “dal viso semita”
di Umberto Saba o della capra di Magusu “condotta per le corna”,
o come quello della pròtome caprina della chiesa di Santa María
di Malta, ora che ho la mente immersa nella contemplazione del tuo Autoritratto
in progress… che presenti come divertissement, divertèndoti
ad osare ad oltranza, con “le perle ai porci”.
Ma è pur vero che concordia discors. Attraverso questo contrasto,
attraverso la disparità di pensieri, d’opinioni, con i tuoi
“concittadini”, si raggiungerà certamente l’intesa,
l’accordo per-fetto. Una contrastante concordia. Sono certo che
ami la tua Gúspini. E non lo taci.
Continua. Continua pure a parlare dei tuoi “Asterischi”, e
concludi la tua risposta, ma “corri piano”. Anche a me piacciono
gli ossimori. Festina lente (per chi non lo capisce, traduco alla spicciola:
corri, ma lentamente). Sii prudente.
Adesso devo parcheggiare un attimo… Ho una telefonata da fare…
Bene! Dicevamo, a proposito della tua domanda…?
Non ho dato più del 10 per cento di quel che io posso dare alla
cultura di questo paese, ma è già abbastanza, e ho visto
che i fremiti semi-nevrastenici dell’opinionismo locale non hanno
atteso molto per vibrare nel loro paludoso e saltellante silenzio.
Se dovessi arricchire gli Asterischi di tutto quel che la tua domanda
vuole esaminare, dovrei scrivere molto, e molto altro, ma di far questo
non ne vale proprio la pena.
Abàrrinti abì funti, ka ki ddis andad’beni.., andad
beni puru a mei.
Sono loro che van lasciati soli. Io so consumare il mio drink anche per
conto mio, davanti a qualsiasi povero puèblo di sperduti che giracchiano
attorno ad un insignificante “sé stessi”, in cornacchiante
compagnia dei loro simili.
Grazie, Nino. Sono certo che da tutto questo tuo scrívere nascerà
un buon libro, poiché conosco la tua passione che ti porterà
alle stelle. Attraverso quest’aspro cammino delle tue note. Per
aspera ad astra atque ad asteriscos, per asperrima.
Stelle e stelline in cielo e nella veranda. Ed è già notte.
GUSPINI TRA “POSSIBILISMO” E FUTURO
Intervista a Nino Cannella su alcuni temi della realtà guspinese
di Evaristo Puxeddu
La nostra cittadina sta attraversando un’evidente crisi d’identità.
Gli amministratori propongono alcuni interessanti progetti come quello
di Montevecchio. E si parla di nuove province. Quale è il tuo pensiero?
Non mi sono mai occupato di politica, ma per offrire alla tua domanda
debiti riscontri mi consento di entrare nella sfera della (definiamola
così) ingegneria politica, e dirti che vedrei bene una provincia
in Ogliastra, una provincia di Gallura ed una provincia in area Iglesiente-Sulcitana,
ma non ritengo essenziale una provincia del Medio Campidano, che mancherebbe
di numeri. E siccome parlo di politica tra virgolette, mi piacerebbe immaginare
una “rifondata” Provincia di Oristano.
Facciamo un volo nell’Iperuranio politico, ed analizziamo alcune
possibili valutazioni positive. Una “Guspini” che diventasse
la seconda città della Provincia di Oristano; una Guspini che,
pur nei suoi aspetti legati all’ambito cagliaritano, e priva di
rapporti preferenziali con l’Oristanese, porterebbe ad unire –
tramite Arbus e fino a Bosa – un sistema costiero egemone esteso
a quasi tutto il versante occidentale della Sarde-gna.., è valutazione
da compiersi. Si potrebbero considerare gli apporti di un Polo Ceramico
ad alta espansione, le potenzialità di Montevecchio e dei nostri
luoghi archeologici, un eventuale entroterra di comuni del genere”Sa
Corona Arrubia”, di alta valenza museale.
Quali altri vantaggi ci sarebbero, per noi, ad entrare nella Provincia
di Oristano?
In primo luogo, una Guspini collegata con una strada a quattro corsie
verso Terralba e la 131 consentirebbe di connet-tersi velocemente non
solo al capoluogo ma anche al suo porto, divenuto “porto franco”,
con collegamenti con la Francia (Marsiglia, Tolone) con la Spagna (Barcellona,
Malaga, le Baleari), con il Nord Africa (Marocco, Algeria). Si otterrebbe
un vantaggioso avvicinamento dell’area guspinese ai traffici del
Mediterraneo Occidentale, tramite i quali si darebbe luogo alla possibilità
di un’accoglienza turistica internazionale diretta. Aggiungo, in
seconda istanza, l’ipotesi di una deviazione del sistema ferroviario,
realizzabile con un arco ferroviario da San Gavino a Guspini, passante
poi per Terralba-Marrubiu, e in grado di garantire altri collegamenti
tra noi e il “possibile” capoluogo. L’aeroporto di Fenosu,
ristabilito per queste nuove funzioni, farebbe il resto. Come ho già
detto, si tratta di provocatori ragionamenti di ingegneria politica, ma
non per questo meno stimolanti. Il mio non è altro che un invito
a leggere tra le righe del possibile. Naturalmente, per sfruttare le potenzialità
sulla carta delle risorse nostrane, Montevecchio, la costa, Neapolis e
un discreto territorio nuragico, occorre una grande sinergia con le realtà
territoriali limitrofe. E una nuova provincia Oristanese, in cui –
beninteso – qualche assessorato potrebbe essere accolto da noi,
in una specie di”provincia diffusa”, consentirebbe a questo
grande sistema costiero, e al relativo entroterra, un contesto politicamente
più ampio e potente di quello attuale, dimostratosi finora spento
e fragile.
A proposito di Montevecchio. Cosa ne pensi dei restauri che si stanno
facendo?
Montevecchio necessita di un “doppio” recupero.
Oltre all’immancabile riatto degli edifici epocali, occorre il ripristino
del paesaggio originario. Dunque una conservazione attiva e produttiva
dei complessi più significativi, e l’elimina-zione dell’inutile
“baraccame” presente. Insomma, vedo una Montevecchio al di
qua di pretestuosi contesti; più museale e di accoglienza culturale
scientifica; più vissuta a “mezza strada” tra l’entroterra
e le direzioni del mare.
Tornando al “possibilismo”, ecco un apporto sonante ad una
costruenda provincia reale. In linea d’aria è molto vicina
al mare, ma fino a qualche tempo fa occorrevano tre quarti d’ora
per superare distanze che potrebbero essere notevolmente ridotte. La viabilità
verso la Costa Verde è una viabilità di tipo ottocentesco.
E’ quella delle antiche mulattiere, e delle curve a tutti i costi.
E una decina di curve e controcurve risolte consentirebbe di raggiungere
più comodamente i luoghi citati.
Proviamo a parlare del “centro storico” di Guspini…
La parola “centro storico” a Guspini è un’altra
delle fraseologie di facile consumo. Un tessuto storico architettonico
degno di quel nome da noi non esiste, e parte del poco che c’era
(mi riferisco ad alcune costruzioni di tipo “Umbertino”, quali
il palazzetto antistante la farmacia, la Caserma, “Sa Pisciedda”,
l’Albergo Fanni e qualche casa Liberty della Via Santa Maria) è
stata spazzata via da una sensibilità che - dal punto di vista
della conservazione dell’antico – avrebbe intonacato il Colosseo
e demolito le Terme di Caracalla. Negli anni ’60 era di moda lasciar
posto a caseggiati poco meno che popolani.
Cosa si può fare?
Qualcosa la si può ancora fare. Per esempio, ripristinare –
dove possibile – i volumi scomparsi. Nella “Piazza Mondezza”
(come io la definisco) adiacente la Via Tevere, vedrei una costruzione
d’uso pubblico che – senza sacrificare i parcheggi –
raccordasse il centro cittadino. Per esempio, un loggiato campidanese
di accoglienza del pubblico, con qualche piano di uffici comunali. Vedrei
certe strade centrali interamente rifatte, come la Via P. Piras e la Via
Bixio, di perduta fruibilità. La mia idea è che, non avendo
più l’antico centro storico, possiamo produrne uno “nuovo”
di fine millennio, da consegnare alle generazioni future. Rivedrei anche
la toponomastica cittadina, ripristinando qualche antico nome storicamente
più opportuno.
Può accennare al famoso “PalazzoFanni”, di cui anche
il Comune voleva occuparsi?
Fu un errore costruirlo, sia per i criteri adottati, sia perché
è fuori luogo per proporzioni. Se però fu un errore costruirlo
a suo tempo, ritengo sia un errore abbat-tere anche solo quattro piani
(come da sentito dire). I costi sarebbero troppo alti, e a quel punto
sarebbe meglio destinare i soldi a miglior uso. Ma siccome siamo nell’Iperuranio,
disegno una proposta. Abbattere tutto il palazzo e le case adiacenti,
creando un’area che consenta l’edificazione di un più
vivibile centro moderno, con due o tre palazzi di sei piani di alta architettura.
Tra la Via Matteotti, il Vico S.ta Maria, e la Via Don Minzoni, un’area
residenziale e commerciale validamente moderna consegnerebbe Guspini al
Terzo Millennio. E non sarebbero pochi gli imprenditori disposti ad investire
in una zona che, tra speso e guadagnato, può valere “oro”.
Naturalmente occorre valutare il problema dei commerci attuali, la logistica
e l’econo-mia dei trasferimenti.
Altri problemi sono quelli del verde pubblico, delle piazze e dei parcheggi…
Per quanto riguarda il “verde pubblico” mi soffermo sui cosiddetti
“ingressi di rappresentanza”. Le vie che ci connettono con
i comuni limitrofi: la Via Gramsci, alberata in modo approssimato nel
suo tratto finale, la via per San Gavino con un viale lasciato a mezza
strada, la via per Gonnosfanadiga con quattro pianticelle asfittiche,
la via per Arbus, sono assolutamente sprovviste di rappresentanze che
non siano “cresuras”. Vorrei anche vedere piante “ben
scelte” e possibilmente “identiche” (dentro lo stesso
viale), e viali che si formino in pochi anni. Non si scelgano alberi che
richiedono trent’anni per crescere!
Per quanto riguarda i parcheggi, ritengo che se ne possano costruire almeno
cinquecento. E’ cosa fattibilissima, come ho già avuto occasione
di illustrare in un mio progetto di massima a chi di competenza. Spendere
milioni per realizzare qui e là piccoli parcheggi che ospitino
i vicini di casa è sbagliato. Occorrono soluzioni più coraggiose.
A proposito di piazze..: se la invito a fare quattro passi attorno alla
chiesa di S. Pio X, scoprirà sei o sette inutili piazzette in due
soli isolati di periferia, mentre la piazza centrale del quartiere non
è né ultimata, né vissuta, e arterie fondamentali
come la Via Mazzini e la Via Matteotti (e tante altre) non ne possiedono
una.
La cultura locale, Professore…?
Per quel che mi riguarda, credo di dimostrarmi attivo e puntuale. Cinque
anni di corsi di Storia dell’Arte all’UNI 3, quattro libri
scritti, un poeta classico guspinese consegnato alla letteratura dialettale…
docent. Il mio lavoro di pittore, una trentina tra convegni e conferenze
gestite in prima persona, segnano il resto. Ma vedo che convegni, mostre
e conferenze, hanno preso piede anche da noi. La cultura del dibattito
politico e monolitico con tre Elle, e quella del confronto negativo e
fazioso, dovrebbe aver fatto il suo corso.
Ad meliora.
Intervista per La Gazzetta del Medio Campidano,
del 13 Dicembre 2004
di Davide Forte
Professor Cannella, partiamo da un tema abbastanza attuale: la cultura
locale.
Premesso il significato generico che questa espressione contempla, vorrei
stuzzicare chi legge, con una frase ad hoc: “la cultura fonda l’altezza
del tema, così come l’altezza del tema fonda la cultura”.
Quel che fa la differenza, tra tante proposte attuali, è proprio
questo: il saper vedere e lavorare dentro cose opportune, interpretarle
e trattarle con una convincente dialet-tica e solide argomentazioni. Il
vario culturame propinato in pagine stampate a tutti i costi sotto il
proprio nome, o certe tendenze più o meno folcloristiche di riproposta
di chissà ché in termini di una cultura locale più
o meno riferibile all’identità dei luoghi, dimostrano che
occorre una misura dello spessore e della portata degli argomenti, stesi
possibilmente in valida scrittura. Tra pubblicismo di quart’ordine
e saper scrivere per gente che sa leggere, corrono distanze note.
Cosa intende dire?
Non ho spazio, per ora, per esempi mirati, ma ne ho per significare il
già detto: occorrono materiali e scritture adeguate. I libri non
sono mazzi di fogli rilegati, con dieci strafalcioni a pagina, come spesso
si vede. Nello specifico poi, vorrei ricordare che tutte le “culture”
sono state “anche” culture locali; naturalmente con le iniziali
maiuscole: la C e la L. Anche l’Ariosto, nella sua Ferrara, era
un autore locale; tale era Dante in quella Firenze nel cui dialetto scriveva
il suo capolavoro. Anche il caso di Leopardi è inizialmente definibile
in tal senso. Ho avuto occasione, in una delle mie ultime conferenze,
di citarlo proprio in questi termini, e ricordare – attraverso i
suoi celebri versi sul natio borgo selvaggio, tra gente non meno che zotica,
“cui nomi strani e spesso / argomento di riso e di trastullo / son
dottrina e saper, che m’odia e fugge…” etc… –
lo sguardo che ogni artista concentra sui suoi luoghi, che gli altri vogliano
vederlo o no. L’ermo colle, e la placida notte e il verecondo raggio
della luna, e la vetta della torre antica, erano i suoi luoghi, e a cantarli
era lui, ben lontano dalle orecchie dei suoi contemporanei locali.
Lei ha consegnato ai campidanesi le opere ritrovate di Giulio Fanari.
Vogliamo spiegare ai lettori chi è esattamente il poeta in questione,
e in quale senso Giulio Fanari si pone come un valido esempio di poesia
dialettale?
Presentare un poeta come Giulio Fanari in un luogo in cui la gente parla
il campidanese, anche se non sa leggerlo né scriverlo fluentemente,
e - ancor più - è digiuna di poesia dialettale colta, è
stata un’azione di potente impatto, specie durante le conferenze
o i Recitals da me tenuti per far conoscere i suoi versi.
Giulio Fanari è un poeta di grande capacità tecnica e vastità
di temi poetici, anche se nel nostro ambiente l’arte in genere risulta
estranea, per la naturale incapacità ad intenderne e gestirne i
contenuti. La lettura di un testo poetico richiede sensi-bilità
e coscienza del valore espressivo della lingua, che qui pochi possiedono,
ma quelli che hanno ascoltato i versi di Giulio Fanari dalla mia voce
recitante hanno capito quale sia la qualità e la forza del poeta.
Come si presenta quindi la poesia di Giulio Fanari?
Bastano quattro parole, per chi sappia intendere. Tecnica compositiva,
originalità dei significati e qualità del disegno poetico,
e in questo senso io so di aver consegnato alla letteratura dialettale
un poeta che conosceva bene il suo mestiere. Non ci sono, da quel che
a me risulta, esempi di poesia campidanese che gli tengano fronte, ma
lo sanno in pochi. Chi è volutamente sordo, lo è solo per
manifesta invidia e incom-petenza. Con la poesia di Fanari, infine, ci
si rende conto che il campidanese poetico non è nulla di meno del
logudorese, anzi, tratta più efficacemente la vena ironica nel
poetico, perché il logudorese rimane piuttosto severo nei suoi
toni. E i poeti dialettali sono sempre poeti di grande e divertita ironia.
A proposito di “nemo profeta in patria ”?
Ritengo che non tutti quelli che la usano conoscano l’intimo significato
della frase. Riferiscono un modo generico e spicciolo per indicare che
nessuno ha spazio artistico nei propri luoghi, ma evitano i rimandi che
la frase impone. La parola profeta non significa tanto colui che predice,
quanto colui che prefigura una via alla cultura futura, e quando si ha
solo passiva parteci-pazione degli scampoli di quella presente, il gioco
si spegne in quella frase. E’ vero che la storia dell’arte
è strapiena di questi ritornelli, e quando si scopre il profeta
molti dimenticano l’uomo sopra piedistalli che in qualche caso non
era il caso di innalzare.
Lo si è visto anche per qualche scrittore dell’ultimo girone
letterario sardo. Ma torniamo a Leopardi: “per invidia non già,
ché non mi tiene maggior di sé, ma perché tale estima
ch’io mi tenga in cor mio”. Si nega l’evidenza perché
non si è in grado di accoglierla, e ci si nasconde dietro il non
volerla accogliere, sottovalutando che gli artisti sono (per definizione)
più avanzati degli altri nel processo culturale, in quanto sono
loro a proporne i tracciati. È una frase che comunque accusa il
pubblico, perché se si preferisce l’inerzia d’attendere
che si compia altrove l’esperienza della fama, si dimostra solo
l’incapacità a capire le cose in loco e in proprio.
L’“approvazione del pubblico” stimola dunque il lavoro
dell’artista, e sancisce il suo successo?
E’ nelle cose. Se un autore produce con etica continuità,
capacità e passione, più gli è riconosciuta l’azione,
più l’entusiasmo per la voglia di fare cresce, e i risultati
si fanno più solidi. Se non si dà che malvolere, solo i
più forti reggono, ma ci vogliono tempi più lunghi di quelli
normalmente legati a una generazione. Se c’è bisogno di un
riscontro iniziale, chi dovrà attribuirtelo, se non la città
in cui vivi? Cogliamo con ironia naturalmente.., ma se in Sardegna bisogna
aver dipinto cinquant’anni (ed essere morti da cinquanta) perché
gli altri se ne accorgano, siamo al solito punto. La storia girerà
con ruote quadre…
Lei pensa dunque che in Sardegna questo problema sia maggiormente avvertito?
Chi solleva lo sguardo sulle cose, e osserva con cervello e cuore i fatti,
si rende conto che da noi c’è un confronto, sempre parziale
e fazioso, solo in senso negativo. Non sei quel che sei e che fai, ma
quel che gli altri vogliono tu appaia, perché c’è
pascolo molto fertile per questo pecorame.
Cosa significa confronto parziale e fazioso in senso negativo?
Il fatto che qui si propenda quasi sempre per le teorie paesane del No,
non per la teoria del Si. L’onda immensa dei pocos…locos deve
sempre tentare di annichilire ogni diversità da quell’onda.
Perché nell’essere pocos, soprattutto come numerologia intellettuale,
si è anche malunidos, o (se vogliamo dirlo e scriverlo) uniti da
una strizzatina d’occhi al male. Cioè disponibili in termini
di banale distruttività. Quando produci vicende da protagonista,
quale che sia il protagonismo (sia chiaro che mi riferisco a qualcosa
che si firmi in prima persona) è solo allora che ti accorgi quanta
è l’organizzazione che si muove nei tuoi confronti, la positività
che ti va incontro, quanto si tenderà a solidarizzare con te, quanto
rientra negli interessi del potentume di vario genere locale che vorrebbe
frullare e strombazzare i suoi pallidi protagonismi, o quanto si tenderà
a squadrare la ruota delle cose, cioè al No!
Perché dunque la gente ha questo atteggiamento negativo?
Non è difficile dirlo. Nel partito del “Chi mi nci pongiu
deu!” non tutti sanno o vogliono confrontarsi nel diretto delle
cose, ma vanno dietro al comodo sentito dire, e chi assume più
o meno spontaneamente le irresponsabili misure del sentito dire non è
certo in grado di produrre giudizi giustificati. Questo crea carenza di
cultura, e naturale malafede a convincersi - tra protagonismo e malalingua
alle spalle - di quale sia la verità.
Ma dov’è dunque la verità?
La verità, dice Kierkegaard, è qualcosa che ciascuno porta
con sé dentro la sua tomba, ma se vogliamo avvicinarla, essa è
nell’opera che ognuno di noi lascia dietro di sé, rivolta
agli altri. È quello… ciò che noi siamo, al di là
di quello che noi stessi affermiamo di noi, o di quel che pretendono di
affermare gli altri. E’ quella la nostra firma autentica. Non le
vuote ciarle, di una parte o dell’altra.
Cambiamo tema. Tempo fa in un’intervista lei aveva palesato le
sue perplessità riguardo all’istituzione della nuova provincia.
Sono cambiate oggi le sue opinioni in merito?
Sono più che altro divertito dalle cose lette. “Tale paese
è il più centrale” scrive l’uno, “tale
paese è il più popoloso” afferma l’altro, “
il mio è più vicino ai borghi esterni” dice il terzo;
“il mio ha più questo e più quello” dice il
quarto.
Ognuno tira l’acqua al suo mulino?
Non c’era bisogno di questa provincia, perché bastava che
Cagliari lasciasse il Sulcis e l’Ogliastra, e Guspini ridiveniva
quello che era: uno dei più grandi centri del Campidano da Oristano
a Cagliari, e rafforzata nei suoi dintorni.
Cosa poi vuol dire centrale, o più popolosa, non so. Chi è
in grado di spiegarmi cosa vuol dire più centrale, più popolosa,
più dotata di servizi, se non si intende anche Guspini, che raccoglie
con centralità dieci paesi tra i più popolati della nuova
provincia, nell’arco di 15-20 chilometri? Abbiamo spazi opportuni
in locali già costruiti (Scuola Media, Vecchia ASL, EX Biblioteca
Comunale), un’area invidiabile da edificare per centralità
di tutti lungo il Viale Mediano, e la cultura di un vissuto che non ci
mette in secondo piano…
Proviamo ad ipotizzare insieme delle soluzioni?
Il primo grande riscontro di un ingresso in provincia di Oristano sarebbe
stato l’egemonia costiera. Una costa turistica estesa da Capo Pecora
a Bosa, con porto ed aeroporto provinciali collegabili all’estero.
Guspini sarebbe la seconda città della provincia per popolazione,
e in unione con Arbus e con la Marmilla avremmo portato 47 Km di costa,
archeologia punico-romana e nuragica, parco geominerario e polo ceramico,
musei, terme e quant’altro. Tuttavia non è impossibile una
“provincia intelligentemente frazionata”, con assessorati
diffusi nei centri che alla provincia appartengono, come se si trattasse
di una grande città articolata nei suoi poli equidistanti.
In questo modo si potrebbero superare alcune rivalità?
Non mi pare che ci siano paesi che possano prevalere così fortemente
sugli altri. Tra chi ha la ferrovia, chi l’autostrada, chi ha il
parco geo-minerario e l’indotto relativo, chi le spiagge, chi è
più popoloso (di quanto?) chi ha Neapolis, chi è più
centrale, chi ha terme e posti letto, chi ha ospedale, chi ha maggiore
concentrazione di uffici e di musei, si torna al pocos, locos, malunidos.
Se non si accettano e discutono i numeri di tutti, e non si dà
qualcosa a chi non ha niente, dando tutto a chi crede d’avere di
più, si fa un passo avanti e due indietro. Nessuno dei più
popolosi centri del medio campidano raggiungerebbe il futuribile capoluogo
in autostrada, nessuno in ferrovia. Tantomeno, poi, dobbiamo stare con
quel paese perché quel paese pretende una sua politica del crescere.
Se la crescita è zero, e quel paese cresce, chi ci rimette, se
non i grandi comuni viciniori? Non si tenda, quindi, per campanilismo
politico economico a portare i propri piccoli numeri come torta quasi
completa per la propria tavola.
Intervista di Davide Forte
Concessa il 14-02-2005
Secondo incontro con Nino Cannella
Professore, vogliamo iniziare questo secondo incontro parlando del paesaggio
urbano guspinese?
Domanda dinamite! Occorrerebbero tempi geologici per rispondere ad una
questione così fatalmente complessa e di naturale lungaggine. Tenuto
conto di tante scelte improprie e incorreggibili di vecchia data, e che
stanno ormai sotto gli occhi di molti, va precisato che la capacità
di leggere dentro il paesaggio urbano ha un senso pubblico e un senso
personale, e non so quale scegliere. Voglio ricordare, comunque, la non
meno che casuale progettualità dei quartieri di ultima e non ultima
realizzazione, proposti spesso come isole “a sé”, lì
dove sarebbe stato più opportuno che le loro architetture confluissero
in strade di rappresentanza o in spazi aperti di più cittadina
centralità, e le legislazioni d’ordine costruttivo, che -
più che costruire - costringono Guspini a parametri leganti e non
del tutto in linea con le necessità d’ampliamento e di pratico
rispetto storico.
Potrebbe citare qualche caso specifico in senso pubblico?
Rispondere, senza estraniarsi da quella filosofia che guida i linguaggi
e gli argomenti di dovuta vastità, è quasi un problema.
Spesso i propositi colti fanno infelicemente a pugni con l’economia
delle piccole tasche, giustamente desiderose di realizzare le loro convenienze,
specie nel centro vecchio del paese, che non ha che pochissimi esempi
validi di antichità costruttive, e che – per questo - potrebbe
avere un miglior tessuto d’abitabilità centrale, e una più
ricca socialità, commerciale ed umana, in quei luoghi. Strade vicinissime
al centro vivono prive di palpito urbano. I percorsi storici (si fa per
dire, e anche per farli), il colore tipico o fondamentale (che ogni città
possiede, nei suoi limiti e nelle sue scelte) sono una piccola cosa della
quale tener conto. Le terrazze coperte da Eternit vanno abbattute, concedendo
qualche gratificazione costruttiva e volumetrica in elevazione. Garage
e ripostigli disposti a mò di favelas dentro spazi condominiali
aperti, le tante mansarde a ottanta centimetri, sono risoluzioni che non
andavano applicate in simile misura.
Qualche caso ancora più specifico ed attuale, in senso personale?
La posizione naturale di Guspini è invidiabile e ridente, col suo
teatro di monti di contorno, ma ha bisticciato spesso con gli ampliamenti
di una città che non avrà mai i ventimila abitanti che avrebbe
invece dovuto accogliere, in un contesto politico-ideologico-amministrativo
meno colorato di quel che fu. Posso segnalare qui e adesso anche la pavimentazione
della piazza centrale: un campionario di asimmetrie che non conclude.
La forma delle aiuole, la disposizione degli alberi, le panchine, casualmente
disposte rispetto all’ordine dei cippi di pietra, il fuori-asse
della tappetatura in trachite rispetto alla facciata della chiesa, la
scelta dei lampioni di stile “cimiteriale”. Ultima, l’aggiunta
di quella cartellonistica, che - appena sistemata - nasconderà
la prospettiva della piazza e della chiesa. Il rione delle case popolari
porta la sua via principale (la via Cagliari) a sbattere contro una collina,
morendovi addosso; Is Boinargius è ghettizzato e dormiente…
pur avendo spazi, strade e spiazzi da capitale dell’impero; le lampionature
sembrano scelte su troppe tipologie. Certe curve e certe strade collinari
sono mal raccor-date agli assi viari portanti. Indicherei anche i marciapiedi
spinti oltre le siepi ai quattro confini del paese, così come deve
essere. Lo sbocco del Viale di Vittorio lungo la via per Sangavino, che
dia a Guspini un altro ingresso di rappre-sentanza, e la mostri a chi
arriva in una prospettiva di vera cittadina, e risolva una volta per tutte
il problema del ponte sul Terramaistus, costruendone un altro lungo quella
più felice direzione, è cosa da mettere in conto. Anche
la via retrostante il tratto nuovo del Cimitero, in confluenza col tracciato
che corre dietro la Centrale Elettrica, potrebbe essere raccordata oltre
il tratto finale della via per Montevecchio (V.le Marconi) dirigendo all’altezza
del Viale Mediano il traffico da e per Montevecchio. Le tre villette della
Famiglia Scanu andavano recuperate integralmente, in bell’esempio
di architettura anni ’50.
Per finire, una rivisitazione toponomastica più giustificata non
sarebbe male. La via Gramsci, la via Matteotti, potrebbero terminare alla
confluenza con le piazze relative, ripristinando nei tratti finali, oggi
alberati, gli antichi (ed altrettanto degni) nomi. Così in alcuni
quartieri, che portano vie intitolate a nomi di non particolare rilievo
storico locale o nazionale.
Mi piacerebbe che venisse proposto anche un consulente artistico per le
scelte specifiche, ma senza andare a cercarselo fuori paese. Del nostro
paesaggio urbano possiamo renderne conto noi.
Visto lo spazio della nostra rappresentazione, inseriamo degli attori
sulla scena. Ad esempio, perché non parliamo della gioventù?
Potrei riferirmi a più d’una. Anagraficamente ne abbiamo
almeno un paio. Ma comincerò dicendo che così come si è
allungata la vita sembra essersi allungata anche l’adolescenza,
che oggi riesce a superare i ventitre… Se dovessi valutare a distanza,
direi che trovo tanti giovani relativamente abbandonati alle piccole confluenze
del loro punto di vista con un mondo esterno non facile, e non vicino
a loro. Il consumismo imperante come gusto del quotidiano, una mancata
cultura generale, il poco spazio di confronto con la generazione e la
“cultura” dei genitori, consumano male le curiosità
e le articolazioni della vita. La ricerca di discorsi e passioni ideali
e formali sembra buio pesto. La musica dentro l’orecchio, l’elettronica
da mercato, la digitalizzazione a oltranza, le discoteche.., sono frequentazioni
di un percorso in cui è facile parlarsi senza dirsi nulla. Distinguere
tra inerte disvalore e dialogo creativo, idealizzante e crescente, è,
per esempio, un’ottima proposta nell’insegnamento nelle scuole
superiori, in cui si ha il sentimento che apprendere sia qualcosa di demodè,
e che l’unico rito reale sia il quarto d’ora di celebrità
televisiva nazional-popolare che oggi è concessa a chiunque non
cerchi altro.
Non c’è molta confluenza tra la loro generazione e le precedenti,
se non per la stessa identità locale e di razza. Direi che molti
sembrano amare Guspini, ma in fin dei conti, se possibile, vorrebbero
lasciarla. Quell’altra gioventù, più annosa, in cerca
di lavoro, la lascia in cento casi l’anno.
Le domeniche sono uno sfacelo di socialità giovanile (e non solo
giovanile) all’aperto, e di solitudini relative. Grande malcostume
locale! I soli abitatori reali della vivibilità viaria del paese
sembrano essere le casalinghe del mattino in giro per le compere da fare.
Non è raro vedere gruppi di giovani raccolti in spazi solitari
e nascosti del paese, girare attorno a sé stessi, e non confluire
se non nel richiamo al telefono cellulare, lì dove sarebbero più
opportuni rapporti in diretta. Le liturgie del sabato sera sembrano ancora
l’unico collante nella giovanile avventura dell’esistere in
gruppo.
Tenendo lo stesso spazio scenografico della nostra rappresentazione (Guspini)
proviamo a raccontare come gli attori occupano il loro tempo, in particolare
quello libero.
Chiaramente ci riferiremo solo a quest’ultimo, e visto che Lei usa
la parola attori, sarò conseguente. Un aspetto rimarchevole del
tempo libero e della comunicazione umana è rappresentato dalla
frequenza abitudinaria del Bar, e da vari (e talora silenziosamente sguaiati)
protagonismi nella cultura politica e nella militanza secondo vento, gabbana
ed arrivismi vari. Tifo calcistico e televisione occupano il resto che
non sia il mare. Queste varie frontiere si consociano nella tendenza naturale,
e molto guspinese, a fondare gruppi inconfluenti, preferendo ognuno le
sue carbonerie all’aperto. Nelle quali c’è chi, nella
varia carnevalata del tempo libero, sembra indossare il costume del mammutthone
o quello degli issocadores. Naturalmente parlo in codice, e solo per fraterno
divertimento. Una curiosità...! Con l’eccezione degli abituali
frequentatori di un’ora della sera, ho l’impressione che qui
ubbidiscano a misteri d’ordine climatico. “Non bessu ca fait
frius. Non bessu ch’es troppu basca. Non bessu ch’es pruendu…Non
bessu ca suat bentu…”
Molti escono per cercare qualcuno che allieti il loro tempo libero senza
dar nulla in cambio. E per questi sarebbe meglio che facesse freddo, vento
e caldo…
Bene, posso chiederle di parlare di Lei, come si costuma in un’intervista?
Dell’artista Cannella?
Cosa vuole sapere?
Lei dipinge, scrive, insegna, fa conferenze, ha molto viaggiato, ha
tenuto anche dei Recitals.., molte Mostre Personali…
Per quel che riguarda il mio ruolo di docente, lascio la risposta ai cinquemila
(più o meno) studenti che mi hanno conosciuto in quella veste quotidiana
lunga trentadue anni, e a chi mi ha conosciuto nel campo. E’ un
lavoro che amo, e che ritengo privilegiato. I materiali del docente sono
squisitamente umani: non clienti, non vivere per il senso del guadagno,
non opportunismi, non doppie facce, non diplomicchi verniciati addosso
a superbi cialtroni, intrallazzi, arrivismi o lavoricchi… E, in
questo senso, è un toccasana per la mia umana economia di vita.
La pittura è la grande compagna assoluta, e dimostro continuamente
quel che faccio, che ho fatto e che farò. Il quasi migliaio di
quadri da me dipinti, documentati per come lo sono attualmente, sono il
corpus fondamentale della mia vita e del mio essere.
Per quel che concerne lo scrivere.., mi è congeniale, quando si
richiede il mestiere ed il vissuto. Scrivo soltanto in questo caso. Is
contixeddus non fanno per me. La fisiologia e l’anatomia delle parole
scritte non autorizzano i tanti che vi si producono all’architettura
dei libri, alla trasfigurazione dei dati interni alle parole e ai concetti.
Molti non sanno neppure cosa siano architettura e musica delle frasi,
stile personale e prosa d’autore, lavorabilità della lingua,
trasfigurazione e sintassi, diversità del racconto e quant’altro.
Il significato primo ed ultimo della mia vita sia il dipingere, ma ciò
non mi ha impedito di produrre sei libri, e di scrivere due mila pagine
autobiografiche di varianti stilistiche su una pagina di vita lunga trenta
secondi. E qualcuno lo sa.
Le conferenze… (ne ho fatte una cinquantina) ritengo di saperle
fare, e anche qui c’è qualcuno che lo sa, e qualcuno che
non vorrebbe saperlo. Sbaglio o la cultura fonda l’altezza del tema…
così come l’altezza del tema fonda la cultura? I Recitals
poi, non solo a Guspini, chi li ha seguiti li ha graditi.., scoprendo
quel che si scopre quando il volto è aperto e sa comunicare.
Ritorniamo alla nostra rappresentazione. Cosa di quello spazio teatrale
del nostro tempo l’artista ha voluto rappresentare nella sua opera?
Non ho mai operato in relazione ad un’area ristrettamente locale,
e i miei argomenti in seno all’arte vengono da tutt’altra
matrice, e vanno in tutt’altra direzione. Quel che vorrei dire è
che – di qua dall’arte – se qualsiasi lavoro, con i
dovuti annessi e connessi, non costituisce che quella minimaglia esistenziale
con la quale si attraversa questo mondo per far campare le cose, io ho
volto anche altrove il senso del mio fare, e con altri rituali.., volti
alla storia dell’arte. L’opinionismo intellettuale dei veramente
colti, o la creatività artistica, non sono per tutti… La
creazione di cultura non si sdogana iscrivendosi al partito dei “Chi
mi nci pongiu deu”, di cui il paese sembra pieno come il vaso di
Pandora. Non ho intenzione comunque di ripetermi in cose già dette.
Ma mi consenta.., c’è una cosa cui non saprei rispondere,
se Lei me la chiedesse: quanto potrà valere ciascuno dei cinquemila
o diecimila quadri che pendono alle pareti delle case di questa città.
Grazie, professore, penso che Lei abbia risposto. E’ sempre un piacere ascoltarla.
Grazie, naturalmente, anche a Lei.
Ci risentiamo?
Chissà!
UN ARTISTA DELLA NOSTRA TERRA
Presentare in queste pagine Nino Cannella, e dover rendere conto dei diversi aspetti del suo profilo intellettuale, è sinceramente impegnativo, per la personalità eclettica e di vastissima cultura che mi accingo a trattare. Laureato in Biologia e professore emerito (trentasei anni di docenza nella scuola superiore della nostra cittadina), milleduecento quadri dipinti, una trentina di Mostre Personali tra Sardegna e Italia, riconoscimenti e premi di vario ordine (comprese un paio di medaglie d’oro ottenute in Rassegne Nazionali a Sanremo e Foggia), undici libri scritti (tra i quali varie monografie pittoriche e una monumentale opera memorialistica e intensamente autobiografica cui ho potuto avere rapido accesso) sono i suoi titoli più evidenti e noti. Ma c’è dell’altro ancora da considerare per quel che riguarda la sua attività.... C’è un poeta dialettale della statura di Giulio Fanari, consegnato alla cultura e alla storia letteraria del Campidano (e non solo); ci sono decine e decine di conferenze, di relazioni scritte per l'UniTre di Guspini (quando tenne per alcuni anni i corsi di Storia dell'Arte e di Cultura Italiana. C’è un'intensa attività saggistica: Casanova, Proust, Nietzsche, Caravaggio, Picasso, Van Gogh, Goya, Vermeer, Modigliani, Nivola e tanti altri autori da lui trattati con elevata capacità di testo e dominio degli argomenti, ci sono varie prefazioni ad importanti cataloghi nazionali d’arte, senza dimenticare una brillante attività pubblicistica (i famosi Asterischi.., colti e raffinati corsivi giornalistici rivolti all'intellighentzia e al costume locale), tutti titoli egregiamente riassuntivi dell'azione di una personalità intellettuale instancabile, vulcanica e preparatissima come la sua. Se dovessi aggiungere la valenza della sua penna, la sua capacità di fine parlatore, la sua cultura estetico filosofica, i suoi Recitals (sa anche essere un coinvolgente interprete quando si presta al palcoscenico con testi d’altissimo teatro – soprattutto lo Shakespeare dei grandi monologhi) e i suoi viaggi, per via dei quali ha percorso se non un quarto, un quinto di mondo, non potrei mancare l'obbligo di considerare il peso storico della sua presenza e della sua operatività, ben più ampia di quanto non possa contenerla la nostra Guspini. Lo conosco da più di cinquant'anni, ma posso dire che parlare con lui, così come ascoltarlo nella sua coltissima lingua che discute o racconta, è sempre stato un vivo piacere. E così è per i tanti che sanno ascoltare Nino Cannella in buona fede, cogliendone la dimensione umana e la statura artistica e morale. E riferendomi rapidamente al suo lavoro in progress: quindici volumi di memorie della sua vita, di cui otto già scritti, e alle altre sue ampie monografie pittoriche personali pronte per la stampa, spero intenda pubblicare a breve, perché sono certo della qualità della sua opera, ben più nota altrove che qui da noi. Forse anche per questo non è stato mai molto tenero con i guspinesi; ma come dargli torto? E' nato ed ha operato qui, nella terra che ,nonostante le sue divertite mitragliate polemiche sparate ai suoi concittadini con robusta lingua e con robusta penna, ama e di cui si sente partecipe e protagonista.
Estratto da “GUSPINI - SUL FILO DELL’ACQUA” di Tarcisio Agus AIPSA EDIZIONI
…da Picasso a Kirchner, a Masson, le tracce di un passato grande affiorano nei dipinti di Cannella, felicemente assimilate e talvolta reinterpretate con impennate personalissime. Un citazionismo che si scopre finalmente attitudine corretta e ben applicata, e vale ad inserire il nostro artista in un ambito preciso ed attuale della ricerca pittorica internazionale. Utile, a questo proposito, rilevare certe affinità, evidenti nel confronto con alcuni coetanei esponenti dell'area tedesca e neo-espressionista della Nuova Figurazione: come Helmuth Middendorf e Dieter Hacher.
Prof. Giorgio Pellegrini Docente di storia dell'Arte
- Università di Cagliari
L'Unione Sarda, maggio 1990
…un percorso tutto risolto negli altrettanto complessi meandri della figurazione. Nino Cannella ha subito il fascino della TransAvanguardia, e delle correnti neo-espressioniste degli ultimi anni (…) inglobando al suo interno riprese formali delle avanguardie storiche (Cubismo, Espressionismo, Surrealismo) con spunti segnici e cromatici ai limiti dell'informe. Ed è proprio questa sospensione tra figurativo e astratto a rendere caratteristico il lavoro di Cannella, che non si limita a giustapporre i due universi, ma li rielabora contaminandoli a partire da un linguaggio espressionista che trova il suo punto più alto nelle deformazioni segniche e cromatiche dei ritratti.
Gianni Murtas
La Nuova Sardegna, maggio 1990
Nino Cannella è pittore dalle tinte forti, autore come è… senza misure, estraneo da compromessi. Colori accesi, pochi ma ben accordati, formano spazi geometrici distorti, creano luoghi della mente abitati da maschere espressive che si celano e si rivelano come a teatro. L'eloquio pittorico è solido; più forte, più denso perfino delle sue doti oratorie. Quadri egocentrici s'impongono alo sguardo come monumenti espressivi di una fantasia inquietante ma armonica, che è capace di reggere le distanze e crea, dopo un attimo di impasse, un coinvolgimento visivo nello spazio interattivo tra tela e spettatore. Il respiro della sua pittura è di livello internazionale, pur vivendo alle pendici dei monti di Guspini, dove conduce, indossando gli abiti di un guerriero colto, la sua battaglia.
Paolo Sirena - Direzione del Museo "Sa Corona Arrubia"
Presentazione INEDITIANNINOVANTA Marzo-Aprile 2003
La figurazione ai limiti, di Nino Cannella, tra colori (pochi) e forme
(indefinite). Indagini coscienti dell'ultimo artista invitato al Museo
"Sa Corona Arrubia" con una quarantina di opere appartenenti ad un arco
temporale dal 1990 al 1999: INEDITIANNINOVANTA, appunto.
Tra volti primitivi e impulsi non-figurativi, l'artista, e scrittore,
osserva il mondo, raccontando attraverso Nudi gialli e Autoritratti
in progress la propria arte. Diffidente, Cannella non si concede all'astrazione;
è colpito, affascinato dal non figurativo, e sa muoversi bene negli indefiniti
spazi dell'informale, ma non supera il confine. Quando credi che ciò avvenga,
ecco un volto, o l'ombra di un occhio, che automaticamente rende tutto
riconoscibile. Le sue opere nascono da ampie superfici di colore, nelle
quali il pennello individua ombre, schematizza lineamenti, sa muoversi
rapido sulla tela. Deciso, sicuro, immediato. I gialli urlano, i bianchi
si sporcano di turchese; il colore, materico, definisce ampie superfici,
e queste a loro volta costruiscono volumi, forme.
Andrea delle Case
Exibart Marzo 2003
Viaggio dell'internettista inesperto con felice èsito
Pòvero neointernauta che ricorre alle stazioni mercenarie per
entrare nel mistero delle immàgini e di tutti i segni contenuti
nell'ètere di questa nostra minúscola mònade cieca,
ma tutta bocca e orecchi, nuda e ben in mostra a tutti i suoi eteròcliti
visitatori, m'incappo in un sito ricco di orientaleggianti adescamenti
dell'arte di Nino Cannella, in una sorta di casuale interconnessione tra
la sua spinta centrífuga intellettual-artístico-spaziale
nell'offerta del bello, dentro l'illimitàbile universo oligopsonístico
vario e sovraccàrico come i mercati di Bagdad nelle notti di Sheherazade,
e la mia ulisside sete di conoscenza; poi, inevitabilmente, mi perdo.
E mi trovo davanti a maniglie di perle e d'oro e d'avorio e di plàtino
curve nell'attesa che queste mie dita inesperte prèmano tasti di
fòrmule vuvuvupuntomisteropuntoití perché possa spalancàrmisi
il portale di màgica roccia dei miei desidèri, senza sèsami
e alibabà, ma soltanto con i miei quaranta neuroni di pazienza.
E infine il fato dell'invisíbile rete a lui di nuovo mi conduce,
inesperto fortunato navigatore dell'ignoto, nàufrago con la camicia,
nella sua ísola di luce www.ninocannella.it, e mi è concessa
una gradita vísita e un'arricchente permanenza. Lí sfoglio
parole e parole, parole e immàgini, in pàgine di testi e
di teste, d'informi volti e antiche figure, d'immaginàri modelli
e ritratti orientali e dúplici sorrisi e amplessi di casanova.
Oh! Giaccio tra i cuscini di un'immortale Sheherazade.
Eellecí
Gazzetta Medio Campidano - Efisio Luigi Cadoni